sabato 30 marzo 2013

Lo strano caso del Dr. Dennett e di Mr. Homunculus

Homunculus, chi era costui ? Ma che domande, l’Homunculus siamo noi stessi.
In campo cognitivo, infatti, si parla di Homunculus Cartesiano per indicare la parte più intima del sè, secondo l'idea che dentro di noi, da qualche parte nel nostro cervello, viva una persona che guarda il mondo attraverso i nostri occhi e comunica attraverso la nostra bocca.
Si tratta di un concetto affascinante, a cui facciamo inconsciamente riferimento quando parliamo di noi stessi, ma la cui validità scientifica è messa in forse (o addirittura demolita) da molti studiosi della mente.
Tra questi vi è lo scienziato americano Daniel Dennett, alle cui teorie è dedicato questo post. Il testo, in forma di breve compendio, è tratto dall’ottimo sito IL DIOGENE, a cui rimando per eventuali approfondimenti.
LUMEN


<< La conclusione di Dennett è che l'intenzionalità si basa su nozioni che possono essere definite pseudo-spiegazioni, poiché le convinzioni, i desideri o gli atti volitivi a cui essa fa riferimento, non costituiscono la vera causa del comportamento umano, ma sono semplici etichette per descrivere ed, eventualmente, prevedere il comportamento stesso.

L'intenzionalità, che deriva dalla psicologia del senso comune, non rappresenta un adeguato concetto esplicativo, dal momento che non può fare a meno di evocare una sorta di homunculus (eredità che ci deriva dalla concezione di Cartesio), posto alla base del nostro agire intenzionale e cosciente.

L'unico modo per eliminare l'homunculus è quello di ignorare la soggettività dell'individuo, concentrando la nostra attenzione sulla struttura reale del cervello.
In tal modo si può sostituire l'homunculus con tanti sottosistemi (folletti), ognuno dei quali svolge operazioni elementari: invece di parlare di fini o di intenzioni, analogamente a quanto avviene nei calcolatori, si può fare riferimento a sub-routine di un programma a cui vengono assegnati compiti semplici e ben specifici.

Dennett (…) ritiene che non ci sia una sostanziale differenza tra il modo di operare di un calcolatore e quello del cervello umano. In entrambi i casi si tratta di sistemi fisici, composti da un certo numero di sottosistemi. Non ha importanza il tipo di materiale con cui tali sistemi sono costruiti, bensì la funzione che essi svolgono.
Dennett non nega l'utilità di attingere dati dalla soggettività individuale, ma nello stesso tempo ci invita a considerare con sospetto questi dati.

L'evidenza con cui essi si presentano a un determinato soggetto non costituisce affatto una garanzia circa la loro veridicità. La capacità introspettiva della coscienza potrebbe addirittura essere frutto di un'illusione e noi non avremmo modo di smascherarla se ci affidassimo soltanto ad essa.
In una delle sue numerose argomentazioni, Dennett si richiama a Hume, all'analisi da questi condotta sul processo casuale.

Prima di Hume, tutti i tentativi di spiegare perché si crede nella casualità muovevano dal presupposto che, quando si osserva una causa e poi un effetto, non si fa altro che vederne la necessaria connessione.
Hume cercò di capovolgere questa impostazione, osservando che essendo noi tutti stati condizionati ad aspettarci l'effetto allorché vediamo una causa, siamo irresistibilmente portati a trarre l'inferenza, e ciò fa sorgere l'illusione di vedere la connessione necessaria che lega il succedersi dei due eventi.

Dennett propone una spiegazione analoga per la coscienza: «ci scopriamo a voler dire innumerevoli cose su ciò che sta accadendo in noi, e questo fa sorgere le varie teorie che spiegano come siamo capaci di dare resoconti introspettivi, tra le quali, ad esempio, quella ben nota ma semplicistica secondo la quale "percepiamo" questi avvenimenti con il nostro "occhio interiore"». (…)

Dennett critica la tendenza diffusa tra i ricercatori a pensare che i sistemi percettivi forniscano "segnali in ingresso" a una qualche area centrale del cervello, la quale, a sua volta, utilizzi tali segnali per impartire comandi relativamente periferici che controllano i movimenti del corpo.
Questo modello presuppone l'esistenza di un centro nel cervello verso il quale tutti i segnali convergono dando luogo al fenomeno della coscienza. Dennett chiama questa concezione Modello del Teatro Cartesiano, poiché andrebbe appunto fatta risalire a Cartesio.

Essa afferma l'esistenza di un ordine, di una linea d'arrivo in una parte definita del cervello, a seconda della quale l'ordine d'arrivo in quel punto corrisponde all'ordine con cui le esperienze "si presentano" al soggetto, poiché ciò che accade lì è precisamente ciò di cui diveniamo coscienti.
Il fatto è che noi non abbiamo esperienza diretta di quanto avviene sulla nostra retina, nelle nostre orecchie, sulla superficie della nostra pelle. Nella nostra effettiva esperienza rientra soltanto il prodotto finito di questi diversi processi di interpretazione.

Dennett riporta alcune situazioni sperimentali che mostrano come possiamo essere ingannati da ciò che appare.
Ad esempio, dati due fenomeni collegati tra loro in rapida successione, in certi casi accade che nel nostro vissuto soggettivo il secondo influenzi il primo, ancor prima di essersi verificato. (…)

L'unica spiegazione accettabile è che la percezione dei due eventi sia il risultato di una rielaborazione successiva. Le due esperienze distinte non fanno a tempo ad essere colte dalla coscienza come tali o, se ciò accade, esse vengono subito "spazzate via dalla memoria e sostituite da un documento falsificato" che ci presenta l'influenza del secondo evento sul primo come qualcosa di operante sin dall'inizio.
Alla luce di questi indizi sperimentali, Dennett giunge a concludere che non esiste un luogo centrale, un Teatro Cartesiano dove "tutto converge" per essere esaminato da un osservatore privilegiato.

La coscienza non sarebbe quindi una questione d'arrivo a un determinato luogo cerebrale, quanto piuttosto di attivazione che supera una certa soglia sull'intera corteccia o su larga parte di essa.
Al posto della concezione del Teatro Cartesiano, in cui opera un flusso lineare di processi che si succedono in maniera ordinata e sequenziale, Dennett propone quella delle Molteplici Versioni, costituita da un certo numero di circuiti in stretta interconnessione tra loro, che operano in parallelo.

Secondo tale concezione, l'unità dell'esperienza cosciente non viene ottenuta riconducendo l'attività dei diversi moduli in cui può essere idealmente suddivisa la corteccia cerebrale a un centro finale, che agisce da "collettore", bensì deriva dal loro funzionamento strettamente integrato e interdipendente.
In questa prospettiva, il Sé, l'Io a cui ciascuno di noi fa riferimento, si rivela essere soltanto una valida astrazione, una funzione teorica, piuttosto che un osservatore interno con il compito di raccogliere messaggi che provengono dalle varie zone del cervello.

Detto questo, il passo successivo discende quasi come una logica conseguenza.
Se il Sé - scrive Dennett - è soltanto il Centro di Gravità Narrativa, e se tutti i fenomeni della coscienza umana rappresentano soltanto i prodotti dell'attività di una macchina virtuale realizzata con connessioni variamente modificabili del cervello umano, allora, in linea di principio, un robot opportunamente "programmato" con un cervello costituito da un calcolatore al silicio, sarebbe cosciente, avrebbe un sé.

Dennett osserva che molte persone trovano molto poco credibile che un robot possa essere cosciente; esse sono portate a considerare tale ipotesi come una pura e semplice assurdità.
Effettivamente è piuttosto difficile immaginare come un calcolatore o una qualsiasi macchina cibernetica possa sviluppare la coscienza. (…)
Ma, secondo Dennett, è altrettanto difficile immaginare come un cervello umano organico possa sostenere la coscienza. Come potrebbe un complicato ammasso di interazioni elettrochimiche tra miliardi di neuroni equivalere alle esperienze coscienti ? (…)

Per concludere, la qualità dell'essere coscienti, per Dennett deriva unicamente da un certo tipo di organizzazione funzionale, e non dal fatto che si abbia a che fare con un cervello organico piuttosto che con un cervello costituito da un calcolatore elettronico.
Egli non trova una differenza sostanziale tra le due realizzazioni, essendo le loro attitudini legate all'insieme dei processi fisici che si svolgono in esse e non al materiale con cui sono costruiti. Non c'è altro da considerare, poiché le esperienze coscienti si identificano totalmente con gli eventi portatori di informazione al loro interno. >>


P.S. - Personalmente, nonostante l’attendibilità delle teorie di Dennett, continuo a restare affezionato al mio piccolo “homunculus” interiore, al quale non ho nessuna intenzione di rinunciare (anche perché, in fondo, ci conosciamo da una vita…).

LUMEN

sabato 23 marzo 2013

Chi fa da sè, fa per tre - 2

Concludiamo l’articolo di MASSIMO DE MAIO sull’autarchia economica vissuta dall’Italia durante il periodo fascista, Lumen
 
(seconda parte)
 
<< Il merito dell'esperienza autarchica [italiana] è forse quello di aver liberato la tecnologia dalla catena che la tiene legata all'obiettivo della crescita dell'output produttivo e dei profitti.

Oggi come all'inizio della rivoluzione industriale, la tecnologia in ambito economico ha due obiettivi: l'innovazione di processo e l'innovazione di prodotto. Entrambi gli obiettivi vengono perseguiti senza tenere conto dei limiti ecologici alla crescita economica, cioè della scarsità di risorse non rinnovabili e della limitata capacità degli ecosistemi di assorbire gli scarti dei processi di produzione e consumo.
 
Le “innovazioni di processo” sono finalizzate al mero incremento della capacità produttiva, cioè della quantità di merci prodotte per unità di tempo. Le “innovazioni di prodotto” sono strettamente legate alla funzione di marketing e finalizzate ad introdurre sul mercato prodotti sempre nuovi in modo da rendere forzatamente obsoleti quelli esistenti.
 
Ma se si introduce il vincolo posto dalla scarsità di risorse disponibili, l'obiettivo della tecnologia cambia e diventa quello di utilizzare al meglio ciò di cui si dispone, mettendo al primo posto la riduzione dei consumi di materia e energia e subito dopo la copertura del fabbisogno energetico mediante fonti reperibili sul territorio nazionale. Che in Italia non possono che essere rinnovabili e pulite.
 
È così che negli anni dell'autarchia il sapere tecnico-scientifico viene organizzato in enti di ricerca che interpretano la lotta agli sprechi come una vera e propria crociata da intraprendere nell'interesse della Nazione. (…)
 
L'avversione fascista per il liberismo in economia offre una ulteriore spinta in questa direzione: il sapere tecnico scientifico doveva essere messo non al servizio della singola impresa in un'ottica di mercato, ma al servizio di obiettivi autarchici nazionali.
 
Se l'obiettivo prioritario era quello di ridurre le importazioni di carbone, i tecnici dovevano impegnarsi a rendere più efficienti sia le locomotive che i forni industriali. La riduzione dei costi di produzione, che pure viene ottenuta per mezzo di tecnologie autarchiche, è un effetto secondario. L'effetto macroeconomico più importante è la riduzione del consumo complessivo di fonti fossili e inquinanti.
 
Gli anni dell'autarchia sono stati liquidati forse troppo sbrigativamente come quelli in cui il caffè aveva il sapore della cicoria. Erano, invece, anni in cui si assisteva ad una grande vivacità tecnologica. Pochi sanno che in quegli anni ci fu un grande interesse per l'energia solare e che molte delle tecnologie che oggi vengono proposte per migliorare l'efficienza delle macchine o per sfruttare fonti rinnovabili di energia (…) vennero ideate e sperimentate in Italia nel periodo dell'autarchia.
 
Tra le numerose invenzioni dell'epoca troviamo un “motore solare” per far funzionare pompe in ambito agricolo (…) e il “silex”, un materiale isolante per forni industriali capace di ridurre i consumi del 20%.  Sempre in quegli anni si cominciò a parlare di corretto orientamento degli edifici per sfruttare al massimo gli apporti solari e si misero a punto i primi collettori in grado di produrre acqua calda da utilizzare per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria.
 
Nel campo tessile ci fu ampio ricorso alle fibre naturali e vennero inventate nuove fibre come il Lanital, sostitutivo della lana ottenuto dalla caseina del latte, e la Cisalfa, costituita da sostanze cellulosiche. Dunque, anche le fibre “artificiali” avevano una origine naturale e rinnovabile essendo prodotte con sostanze vegetali o animali presenti sul territorio nazionale.

In 10 anni la capacità di generare elettricità da salti d'acqua fu quasi raddoppiata. Le potenzialità idroelettriche furono sfruttate ovunque fosse possibile, anche su piccola scala. (…) Quando ci si rese conto che l'Italia aveva un elevato potenziale di produzione idroelettrica, addirittura superiore ai consumi dell'epoca, si cominciò a puntare sulla mobilità elettrica per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili importate dall'estero.

Nelle città furono realizzate linee per i filobus. (…) Ma lo sforzo di elettrificazione maggiore fu compiuto in ambito ferroviario. (…)  I treni sempre di più venivano alimentati dall'energia prodotta dai bacini idroelettrici e la riduzione dei consumi di carbone era enorme.

Il quadro della mobilità sostenibile si completava con una decisa promozione della bicicletta in ambito urbano. Il riciclaggio fu un ulteriore obiettivo autarchico. Nel 1938 a Milano era in vigore una raccolta differenziata dei rifiuti molto spinta e domiciliare molto simile all'odierno sistema “porta a porta”. Nel capoluogo lombardo si riciclava il 100% dei rifiuti urbani. (…)
 
In un filmato dell'Istituto Luce (…) si percorre tutto il ciclo di gestione dei rifiuti urbani a Milano nel 1938: dalla raccolta domiciliare alla selezione prima meccanica e poi manuale dei vari materiali riciclabili, fino all'ottenimento di prodotti riciclati come la carta.  Negli stessi anni l'incenerimento dei rifiuti venne giudicato dagli ingegneri autarchici come una pratica inefficiente in quanto distrugge risorse preziose che possono essere recuperate e riciclate. E venne scartata dalle opzioni possibili.
 
Alla luce di queste esperienze, occorre mettere in discussione un luogo comune che per molto tempo ci ha accompagnato. L'autarchia, non è da considerarsi uno scenario di regresso tecnologico e scientifico. Al contrario, ha bisogno di uno sforzo di creatività e innovazione nettamente superiore a quello richiesto dal perpetuare in modo pigro e acritico il modello. >>
 
MASSIMO DE MAIO

sabato 16 marzo 2013

Chi fa da sè, fa per tre - 1

Sulle colpe ed i nefasti errori commessi dal fascismo è stato scritto parecchio e non mi pare il caso di aggiungere altro.
Gli amici della Decrescita Felice, però, hanno scoperto un interessante parallelo tra la crisi economica in cui stiamo vivendo (e da cui saremo sommersi sempre di più) ed una delle battaglia più singolari combattute a suo tempo dal fascismo, quella per l’autarchia economica.
Vi riporto qui di seguito alcuni estratti di un bellissimo articolo che Massimo Di Maio (un economista della decrescita) ha scritto sull’argomento.
Da leggere con attenzione e curiosità.
LUMEN


<< Molti confronti sono stati fatti tra la crisi economica che attanaglia oggi le economie occidentali e quella che si dispiegò in tutta la sua drammatica forza nel 1929 e che è passata alla storia come la grande depressione.
 
Al di là delle similitudini e delle differenze, è interessante osservare quali furono le reazioni poco meno di un secolo fa al primo grande e globale fallimento del libero mercato.  E come la risposta dell'economista britannico John Maynard Keynes, fu in grado di spingere l'economia verso una nuova e ancora più veloce crescita esponenziale di produzione e consumo (…).
 
Ma la teoria keynesiana non fu l'unica risposta alla crisi del '29. Negli stessi anni in cui l'economista britannico rispondeva al fallimento del libero mercato (…) cercando una soluzione esogena [spesa pubblica] per rilanciare i consumi e sostenere la crescita, l'Italia, costretta dalle sanzioni internazionali e in un clima politico fortemente ostile al liberismo, applicava una politica economica di segno diametralmente opposto. (…).

Nel nostro paese erano gli anni dell'autarchia e mentre sull'altra sponda dell'oceano le parole d'ordine del New Deal erano sostegno della domanda, rilancio dei consumi, riattivazione della capacità produttiva delle imprese (…), gli imperativi del regime fascista erano lotta agli sprechi, razionalizzazione dei consumi, riciclo totale degli scarti delle famiglie e delle imprese, efficienza energetica, riduzione del consumo di fonti fossili come il carbone, sovranità alimentare, utilizzo di materie prime e fonti energetiche rinnovabili, ricorso a fibre naturali, mobilità elettrica, autosufficienza energetica.
 
In realtà l'autarchia, contrariamente a quanto si crede, non fu solo una esperienza italiana dettata da “inique sanzioni”, anche se le misure sanzionatorie adottate dalla Società delle Nazioni costrinsero senza dubbio l'Italia ad imboccare con maggior determinazione quella strada.  Il clima determinato dalla grande depressione favorì una ripresa generalizzata del protezionismo e le economie degli stati industrializzati dell'epoca cominciarono a chiudersi su se stesse (…).
 
Tuttavia la particolare situazione italiana permise di coniugare il ridimensionamento degli scambi commerciali internazionali con esigenze che oggi definiremmo ecologiche, in una applicazione dell'autarchia su grande scala e con importanti ricadute sul modello economico e sociale. L'Italia, allora come oggi, doveva fare i conti con la pressoché totale assenza di fonti fossili e minerarie sul proprio territorio.

Doveva, per questo, imboccare un sentiero completamente diverso da quello intrapreso un secolo prima dalla rivoluzione industriale: senza il serbatoio, a quei tempi considerato inesauribile, delle energie fossili non si poteva sostenere una crescita indefinita di produzione e consumi. Per questo il primo obiettivo era quello della razionalizzazione dei consumi di materie prime ed energia.
 
Il Fascismo non fu certo un movimento nato per contrastare il paradigma della crescita economica. Al contrario, fu molto impegnato nella modernizzazione di una nazione che era rimasta indietro in quel processo di industrializzazione che dagli inizi dell'800 aveva investito l'Europa e gli Stati Uniti.
 
Sono in molti a ritenere che attraverso opere infra-strutturali, iniziative legislative ed interventi economici il Fascismo pose le basi per la futura crescita economica dell'Italia negli anni del dopoguerra. (…) Lo stile razionalista della moderna architettura fascista, adottato come vero e proprio linguaggio di propaganda del regime, rese ancora più visibile il profondo cambiamento cui si stava preparando l'Italia e diventò un manifesto permanente a favore della modernità. (…)
 
La stessa retorica di regime sul lavoro alla catena di montaggio o in officina era tesa a costruire una cultura industriale e produttivista nella società italiana. Ed era la stessa identica retorica del regime sovietico.

È impressionante la somiglianza tra i manifesti fascisti e comunisti dell'epoca che rappresentavano operai muscolosi in pose plastiche alle prese con incudini e grossi martelli. Non è un caso che il futurismo si sviluppò in Italia e in Russia: due nazioni rimaste indietro nella modernizzazione industriale. In entrambe le nazioni, esso ha svolto il preciso compito di valorizzare progresso e modernità in ambito artistico e culturale.
 
L'elogio della macchina, della tecnica e della velocità unitamente alla denigrazione di tutto ciò che fosse passato e “passatista” avevano l'obiettivo di far uscire dal loro alveo secolare economie fondamentalmente agricole per avviarle ad entrare nel novero delle nazioni più industrializzate del mondo.
 
Ma nonostante tutti questi sforzi, gli effetti sui livelli di produzione e consumo non furono rilevanti.. L'opera di modernizzazione del fascismo non si tradusse nella crescita economica che ci sarebbe aspettata da uno sforzo così imponente.  Le politiche di sostegno alla domanda di merci attuate nell'America (…) su suggerimento di Keynes fecero crescere di molto i livelli di consumo misurati in termini monetari dal prodotto interno lordo.

L'autarchia, invece, diede esiti diversi al processo di industrializzazione: permise all'Italia degli anni trenta di far fronte alle proprie necessità senza incrementare ulteriormente i livelli di produzione e consumo. Per la tecnologia, invece, il periodo dell'autarchia è un vero e proprio giacimento culturale dal quale attingere idee e visioni oggi più che mai attuali.

L'esperienza dell'autarchia italiana ci offre sia una serie di innovazioni, ancora oggi di straordinaria attualità per l'eliminazione degli sprechi e lo sfruttamento del fabbisogno residuo mediante energie e materie prime rinnovabili, sia una diversa concezione della tecnologia, non più finalizzata alla continua crescita economica. >>
 
MASSIMO DE MAIO
 
(continua)

sabato 9 marzo 2013

Terra 2.0

Si sente dire spesso, dalle persone più sensibili ai problemi ambientali, che l’uomo dovrebbe avere più cura, attenzione e rispetto per la Natura e per il pianeta Terra nel suo insieme, visto come una sorta di entità a sé stante (la cosiddetta ipotesi Gaia).
Può darsi che sia vero.
Ma può anche darsi che la Terra e la Biosfera abbiano una resilienza tale che i nostri disastri li lascino quasi del tutto indifferenti e che l’unica vera vittima del nostro comportamento dissennato saremo noi stessi (oltre alle specie viventi più sfortunate, che stiamo portando all’estinzione con noi).
Ecco, sull’argomento, il parere della scienziata ambientalista Gail Tverberg, che ci fornisce anche qualche utile consiglio su come (tentare di) invertire la tendenza (da Effetto Cassandra).
LUMEN


<< La Terra ha sempre avuto a che fare col problema del cambiamento delle condizioni per oltre 4 miliardi di anni.

La Terra è un sistema finito. La natura fa in modo che i sistemi finiti, come la Terra, passino ciclicamente a nuovi equilibri di stato nel tempo, man mano che cambiano le condizioni. Mentre a noi piacerebbe sconfiggere questa tendenza della Terra a questo proposito, non è del tutto chiaro se possiamo farlo. Il cambiamento nel clima è probabile che sia parte di questo passaggio ciclico a nuovi stati.

Un cambiamento di stato è motivo di preoccupazione per gli esseri umani, ma non necessariamente per la Terra in sé. La Terra è passata da stato a stato molte volte durante la sua esistenza e continuerà a farlo in futuro. I cambiamenti riporteranno la Terra ad un nuovo equilibrio. Per esempio, se i livelli di CO2 sono alti, è probabile che diventino dominanti le che specie possono fare uso di livelli di CO2 più alti (come le piante), piuttosto che gli esseri umani.

Come possano avvenire esattamente questi cambiamenti di stato è oggetto di diversi punti di vista. Uno è che il cambiamento dei livelli di CO2 sia un fattore primario. L'articolo di Nature cui ho fatto riferimento prima suggerisce l'aumentato disturbo degli ecosistemi naturali (come un più ampio uso di biomasse) possa forzare un cambiamento di stato.

Personalmente credo che un collasso finanziario collegato ad alti prezzi del petrolio potrebbe essere parte dell'approccio della Natura nel muoversi verso un nuovo stato. Potrebbe portare ad una riduzione del commercio mondiale, un ridimensionamento delle emissioni di CO2 ed una contrazione generale dei sistemi umani.

Tuttavia il cambiamento che ha luogo potrebbe essere improvviso. Non piacerà a molte persone, visto che molti non saranno preparati ad esso. (…)

Sarebbe utile se potessimo rallentare le emissioni di CO2 lavorando per produrre energia con meno CO2. Questa opzione non sembra funzionare bene comunque, quindi direi che abbiamo bisogno di lavorare in un'altra direzione: riducendo il bisogno umano di energia esterna.

Per fare questo, suggerirei due grandi passi:

(1) Riduzione della popolazione mondiale, attraverso politiche di un figlio a coppia ed accesso universale a servizi di pianificazione famigliare. Questo passo è necessario perché l'aumento di popolazione si va ad aggiungere alla domanda. Se dobbiamo ridurre la domanda, diminuire la popolazione deve giocare un ruolo.

(2) Spostare la nostra enfasi nel produrre localmente beni essenziali, piuttosto che esternalizzarli in parti del mondo che usano probabilmente carbone per produrli (senza contare i trasporti – n.d.t.). Consiglierei di partire da cibo, acqua, vestiario e dalla filiera necessaria per produrre questi articoli.

Spostare la nostra enfasi nel produrre localmente beni essenziali avrà benefici multipli:

(a) aggiungerà posti di lavoro locali,
(b) porterà ad una minore crescita nel mondo nell'uso di carbone,
(c) risparmierà nei combustibili per il trasporto,
(d) aggiungerà protezione all'impatto negativo del declino dell'offerta mondiale di petrolio, se questo dovesse avvenire in un futuro non troppo lontano.

Questo aiuterebbe anche a ridurre le emissioni di CO2. I costi dei beni sarebbero probabilmente maggiori usando questo approccio, portando così meno “cose” per persona, ma anche questo è parte del raggiungimento della riduzione di emissioni di CO2.

E' difficile vedere come i passi sottolineati sopra sarebbero accettabili ai leader mondiali o alla maggioranza della popolazione mondiale. Così, ho paura che finiremo per ricadere nel piano della Natura discusso sopra. >>

GAIL TVERBERG

sabato 2 marzo 2013

Papè Satan

SATANA – Uomo, cosa fai qui, nel deserto ?
LUMEN – Una semplice gita turistica. Niente di importante.
 
SATANA – Mi dicono che hai digiunato per quaranta giorni e quaranta notti.
LUMEN – Ma no, figuratevi. Saranno al massimo quattro ore che non mangio.

SATANA – Però hai fame.
LUMEN – Beh sì, un pochino.

SATANA – Allora, se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane.
LUMEN – Anzitutto non sono figlio di Dio, ma, molto più modestamente, dei miei genitori. O, se proprio vogliamo andare indietro nel tempo, del DNA.

SATANA – Sì, questa storia l’ho già sentita.
LUMEN - Inoltre, anche volendo, non ho il potere che voi mi attribuite.

SATANA – Oh, finalmente una risposta sensata. Non come quel tale Gesù Cristo, che si faceva passare per figlio di Dio.
LUMEN – Perché, cosa vi aveva risposto ?

SATANA – "Sta scritto: non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio".
LUMEN – Non mi risulta che Dio parli direttamente con gli uomini.

SATANA – Appunto. Ma non divaghiamo. Vieni con me, ti porto nella città santa, sul pinnacolo del tempio.
LUMEN – Beh, “santa” si fa per dire.

SATANA – Sì, in effetti, con tutte le atrocità che sono state commesse nei secoli da queste parti…
LUMEN – Appunto.

SATANA – Comunque, se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: ai suoi angeli, Dio darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede.
LUMEN - Vi ripeto che non sono figlio di Dio.

SATANA – Ah già, è vero.
LUMEN – E poi soffro un po’ di vertigini, per cui a buttarmi nel vuoto, fosse anche con un ottimo paracadute, non ci penso proprio.

SATANA – Peccato, perché sarebbe stato spettacolare. Comunque anche quell’altro, alla fine si rifiutò.
LUMEN – E cosa vi disse ?

SATANA – Mi disse: "Sta scritto anche: non tentare il Signore Dio tuo".
LUMEN – Magari soffriva anche lui di vertigini e non voleva ammetterlo.

SATANA – E’ possibile. Ma adesso vieni con me. Ti porto sopra un monte altissimo.
LUMEN – Mi fate vedere il panorama ?

SATANA – No, voglio mostrarti tutti i regni del mondo, con la loro gloria.
LUMEN – Beh, proprio tutti tutti è impossibile, visto che la terra è rotonda.

SATANA – Era un modo di dire. Comunque, tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai.
LUMEN – Veramente io non sono disposto ad adorare nessuno, per principio.

SATANA – Sei proprio un tipo strano.
LUMEN – E poi, francamente, non so che farmene di tutto questo potere. Il potere serve, principalmente, per avere accesso a molte donne, fare molti figli ed avere moltissimi discendenti. Ed è una cosa che non mi interessa proprio per niente.

SATANA – Questo mi stupisce. Sei proprio molto diverso da quel tale Gesù di cui parlavo prima.
LUMEN – Perché, cosa vi aveva risposto, questa volta ?

SATANA – Mi rispose "Vattene, Satana ! Sta scritto: adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto".
LUMEN – La solita citazione.

SATANA – Dal che si deduce che il potere non gli dispiaceva poi troppo, visto che aveva paura della tentazione.
LUMEN – Questa è cattiva.

SATANA – Ma io sono cattivo. Ed inoltre si deduce che lui era disposto ad adorare qualcuno, anche se non me. Non mi sembra il massimo, per un uomo che vorrebbe essere d’esempio all’umanità.
LUMEN – Ma non è che quel tale vi stava un po’ sulle scatole ?

SATANA – No, perché ? Anzi, ad essere sincero, ho un certo debito di riconoscenza nei suoi confronti.
LUMEN – Riconoscenza ?

SATANA – Ma certo ! In fondo mi ha reso famoso, importante, temuto e conosciuto da tutti. Prima che arrivasse lui mi conoscevano in pochi, non ero quasi nessuno.
LUMEN – Eravate uno dei tanti.

SATANA – Appunto. Adesso, invece, grazie ai suoi seguaci, sono diventato il grande, il potente, il terribile Principe delle Tenebre. Ti pare poco ?
LUMEN - Beh, in effetti….