sabato 26 aprile 2014

Le vite parallele

Il dialogo virtuale di oggi ha come interlocutore DMITRI ORLOV, grande esperto nell’analisi dei sistemi economici complessi, dei loro punti deboli e delle loro crisi. Con lui parleremo delle similitudini (e delle differenze) tra il crollo politico del grande Impero Sovietico e la crisi, per ora solo economica, che attraversa l’UE e l’occidente. Si tratta di considerazioni molto acute, ma – dato il notevole pessimismo di Orlov - tutt’altro che consolatorie.  LUMEN



LUMEN – Mister Orlov, è possibile tracciare un parallelo tra i crollo storico dell’impero Sovietico ed il declino attuale dell’Europa occidentale?
ORLOV – Direi di sì. Tutto l'arco meridionale dell'UE si trova in un qualche stadio iniziale di collasso, ed il parallelo con l'ex URSS mi sembra, tutto sommato, abbastanza giustificato.

LUMEN – Con delle differenze, immagino.
ORLOV – Certamente. Anche per l’UE si tratta è un collasso finanziario innescato da qualcosa che ha a che fare col petrolio, ma, a differenza dell’Unione Sovietica, con le polarità invertite e ritardato da un periodo di distruzione della ricchezza.

LUMEN – Spiegateci meglio.
ORLOV - Nell'ex URRS, la tassazione non era realmente una fonte di reddito per il governo. L'economia nazionale era basata sulla proprietà del governo di tutto, sulla pianificazione centralizzata e sui bilanci e un sistema di assegnazione ministeriale dei contratti alle imprese possedute dai ministri. L'economia esterna era una questione di esportazione di idrocarburi in cambio di moneta estera, che veniva usata per comprare grano – in prevalenza granaglie per alimentazione animale, senza la quale la popolazione sarebbe diventata povera di proteine e malnutrita.

LUMEN – Quindi un equilibrio economico molto particolare.
ORLOV - Durante il cosiddetto periodo di “stagnazione” degli anni 80, l'economia sovietica è stata svuotata a causa di diverse tendenze. L'eccessiva spesa nella difesa era una di queste. Un'altra era che l'investimento in beni cruciali (macchinari, impianti e attrezzature) ha raggiunto il punto dei ritorni decrescenti, che è molto difficile da caratterizzare ma non così difficile da vedere. Infine, Solzhenitsyn e il movimento dei dissidenti hanno fatto un danno irreparabile al prestigio sovietico, distruggendone il morale.

LUMEN – Quando è arrivato il colpo di grazia ?
ORLOV – E’ arrivato in due parti. Una era l'incapacità di aumentare la produzione di petrolio dato lo stato della tecnologia di estrazione del petrolio sovietico dell'epoca. L'altro è stato il crollo dei prezzi del petrolio, fino a 10 dollari al barile a un certo punto, perché il Mare del Nord e l'Alaska sono entrate entrambe in produzione ed i sauditi pompavano quanto più petrolio potevano, sulla base di un tacito accordo con gli Stati Uniti, per abbassare i prezzi del petrolio e far collassare così i sovietici.

LUMEN – Come per l’appunto si è verificato.
ORLOV – L'URRS si era fortemente indebitata con l'occidente e, alla fine, ha avuto bisogno del credito occidentale per mantenere le luci accese al Cremlino. Una delle scene finali rappresentava Gorbaciov al telefono con Helmut Khol che chiedeva di chiedere agli americani di sbloccare un po' di fondi.

LUMEN – Torniamo al presente.
ORLOV - Possiamo vedere dei paralleli tra quei tempi e quanto sta accadendo ora negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, ma con tutte le polarità invertite: qui il petrolio entra e i soldi escono e il colpo di grazia sarà dovuto agli alti costi del petrolio piuttosto che quelli bassi.

LUMEN – Quindi ?
ORLOV – Quindi al posto dei fallimenti nella pianificazione centralizzata, che non è riuscita a distribuire in modo efficace la produzione, abbiamo fallimenti del mercato globalizzato, dove la produzione è efficacemente globalizzata ma il consumo non è efficacemente localizzato fra i ricchi e gli ex ricchi e deve essere alimentato dal credito. E al posto dei ritorni decrescenti dalla distribuzione di beni capitali, abbiamo ritorni decrescenti dalla distribuzione del capitale stesso, dove un'unità di nuovo debito ora produce molto meno di un'unità di crescita economica.

LUMEN – Vi sono conseguenze anche a livello di immagine ?
ORLOV – Sì, ma il danno alla reputazione e al morale è in gran parte dal lato statunitense dell'Atlantico, dove al posto di Solzhenitsyn e del movimento dissidente, abbiamo lo scandalo di Abu Ghraib, Wikileaks di Julian Assange e Edward Snowden.

LUMEN – Anche l’Europa, però, avrà la sua parte.
ORLOV – Certamente. Per la UE, gran parte del danno ha a che fare con la sperimentazione di disparità economica fra il cuore ricco e la periferia sempre più impoverita. La recente mossa dell'Ucraina di andarsene dall'UE e il caos successivo finanziato dall’occidente a Kiev, non è un bello spettacolo. Poi c’è la spesa militare fuori controllo, che è un problema anche statunitense, con i fallimenti epocali in Afghanistan, Libia e Siria, nei quali la UE è complice di primo piano.

LUMEN – E la nostra piccola Italia ?
ORLOV - Confrontare l'ex URRS con l'Italia è difficile a causa della differenza di scala: 1/5 della superficie terrestre, contro una penisola piuttosto piccola; un'economia che è lentamente decaduta nell'isolamento contro una parte integrante dell'UE; un paese dove la scelta è fra bruciare idrocarburi o morire di freddo contro uno in cui la scelta è fra andare in scooter o prendere l'autobus; un paese con un settore agricolo devastato incapace di produrre sufficienti calorie proteiche contro un paese di buongustai dove i negozi di alimentari costituiscono dei buoni soggetti per dei quadri ad olio.

LUMEN – Una immagine molto pittoresca, se posso dirlo.
ORLOV – Però, quando alla fine arriverà il collasso reale, le similitudini saranno sempre di più. Il collasso finanziario arriva sempre prima: ogni sorta di accordo finanziario collassa quando il centro diventa incapace di far galleggiare la periferia e in risposta la periferia comincia a rifiutare la cooperazione economica. Il risultato è un crollo delle catene di fornitura, chiusura della produzione e, subito dopo, chiusura del commercio.

LUMEN – Quello che avvenne in Unione Sovietica.
ORLOV – Sì. Nel caso dell'ex URRS, questo si verificò nel 1989-1991 quando le varie repubbliche e regioni rifiutarono di cooperare con Mosca. Sospetto che questo accadrà anche nella UE, a un certo punto. Ma mentre il cittadino medio sovietico non poteva essere spennato più di tanto, l'Italia, e gran parte della UE, ha ancora un sacco di pecore grasse che il governo può tosare per continuare a fa funzionare le cose.

LUMEN – Quindi possiamo ipotizzare qualche altro anno di declino costante prima che le luci si comincino a spegnere.
ORLOV – In effetti, direi che questa è la distinzione chiave tra i due scenari: l'ex URRS è collassata subito perché era già pelle e ossa, mentre gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno ancora molto grasso sottocutaneo da bruciare. Ma di fatto lo stanno bruciando. E quindi la conclusione è che il collasso arriverà, ma qui ci vorrà un po' di più.

LUMEN – E allora non resta che dire: Carpe Diem !

martedì 22 aprile 2014

Il Dawkins egoista - 2

(Dal libro IL GENE EGOISTA di Richard Dawkins – seconda parte)


<< Questo libro mostrerà come sia l’egoismo individuale sia l’altruismo individuale vengano spiegati dalla legge fondamentale che chiamo egoismo del gene. Ma prima devo discutere di una particolare spiegazione errata dell’altruismo, perché è molto diffusa, ed anche molto insegnata nelle scuole.
Questa spiegazione è basata sul fraintendimento che ho già menzionato, che le creature viventi si evolvano per fare delle cose “per il bene della specie” o “per il bene del gruppo”. È facile vedere come quest’idea abbia potuto nascere nella biologia.

La maggior parte della vita di un animale è dedicata alla riproduzione, e la maggior parte degli atti di sacrificio altruistico che si osservano in natura sono compiuti dai parenti verso i figli. “La perpetuazione della specie” è un eufemismo comune per indicare la riproduzione, ed è innegabilmente una conseguenza della riproduzione.

Basta un piccolo errore di logica per dedurre che la “funzione” della riproduzione sia di perpetuare la specie.
Da questo, basta un ulteriore breve passo falso per concludere che gli animali in generale si comportano in modo tale da favorire la perpetuazione della specie. Sembra seguirne che esista l’altruismo nei confronti dei membri della stessa specie.

Questa linea di pensiero si può anche esprimere in termini vagamente darwiniani. L’evoluzione funziona per selezione naturale, e selezione naturale significa la sopravvivenza differenziata del più “adatto”. Ma stiamo parlando dell’individuo più adatto, della razza più adatta, della specie più adatta, o che cosa altro?
Per alcuni scopi questo non è molto importante, ma quando si parla di altruismo è ovviamente cruciale. Se sono le specie a competere in ciò che Darwin chiama la lotta per l’esistenza, sembra che l’individuo giochi, al massimo, il ruolo di pedina, sacrificabile quando lo richiede l’interesse della specie nel suo complesso.

Per metterla in termini leggermente più rispettabili: un gruppo (come una specie o una popolazione all’interno di una specie) i cui membri individuali siano pronti a sacrificare se stessi per il bene del gruppo, potrebbe avere meno probabilità di estinguersi rispetto a un gruppo rivale i cui membri individuali antepongono i propri interessi egoistici a qualunque altra cosa.

Quindi il mondo diviene popolato principalmente di gruppi costituiti da individui che tendono a sacrificare se stessi.
Questa è la teoria della “selezione di gruppo”, per molto tempo accettata per vera da biologi che non avevano familiarità con i dettagli della teoria evoluzionistica, pubblicata nel famoso libro di V. C. Wynne-Edwards, e resa popolare da Robert Ardrey in “The Social Contract”.
L’alternativa ortodossa è normalmente chiamata “selezione individuale”, sebbene io personalmente preferisca parlare di selezione del gene.

La risposta veloce all’argomento della selezione di gruppo potrebbe essere come segue. Anche in un gruppo altruistico, ci sarà quasi certamente una minoranza ribelle che si rifiuta di compiere alcun sacrificio.
Se c’è anche un solo ribelle egoista, pronto a sfruttare l’altruismo degli altri, allora lui, per definizione, ha più probabilità degli altri di sopravvivere e di avere figli. Ognuno di questi figli tenderà ad ereditare i suoi tratti egoistici.

Dopo molte generazioni di questa selezione naturale, il “gruppo altruistico” sarà diventato meno numeroso, fino ad essere numericamente indistinguibile dal gruppo egoistico.
Anche se vogliamo concedere l’improbabile esistenza iniziale di un gruppo puramente altruistico senza alcun ribelle, è molto difficile vedere cosa impedisca ad individui egoisti di migrare da gruppi egoistici vicini, e, accoppiandosi con loro, di contaminare la purezza del gruppo altruistico.

Il selezionista individuale non nega che i gruppi si estinguono, e che l’estinzione di un gruppo possa essere influenzata dal comportamento degli individui di quel gruppo.
Potrebbe anche ammettere che, se solo gli individui di un gruppo avessero il dono della lungimiranza, potrebbero capire che, a lungo termine, la cosa migliore per loro è resistere alle tendenze egoistiche, per impedire la distruzione dell’intero gruppo. Quante volte questa cosa è stata detta negli anni recenti alla classe operaia della Gran Bretagna?
Ma l’estinzione di un gruppo è un processo lento rispetto alla rapida morsa di eventi nella competizione individuale.

Anche quando il gruppo sta lentamente e inesorabilmente declinando, ci sono individui egoistici che fanno carriera a breve termine, alle spese degli altruisti. I cittadini della Gran Bretagna possono avere o non avere il dono della lungimiranza, ma l’evoluzione è cieca al futuro.
Sebbene la teoria della selezione di gruppo goda oggi di poco sostegno in quei circoli di biologi professionisti che comprendono l’evoluzione, è molto accattivante intuitivamente. Molte generazioni successive di studenti di zoologia restano sorpresi, quando escono da scuola, di scoprire che questo non è il punto di vista ortodosso.

Non si possono colpevolizzare per questo, perché nella “guida per insegnanti di biologia di Nuffield”, scritta per insegnanti di biologia di livello avanzato in Gran Bretagna, troviamo ciò che segue: “Negli animali superiori, il comportamento può assumere la forma di suicidio individuale per assicurare la sopravvivenza della specie”.
L’autore anonimo di questa guida è beatamente ignorante del fatto che ha appena detto qualcosa di controverso. In questo è accompagnato da alcuni vincitori di premi Nobel. Konrad Lorenz, in “sull’aggressione”, dice che il comportamento aggressivo ha delle funzioni di “preservazione delle specie”, e che una di queste funzioni sia assicurarsi che solo gli individui più adatti riescano a riprodursi.

Questa è una gemma di argomento circolare, ma ciò che voglio evidenziare è che l’idea della selezione di gruppo è così radicata che Lorenz, come l’autore della “guida Nuffield”, evidentemente non capiva che la sua affermazione contraddiceva la teoria darwiniana ortodossa. (…)
Robert Ardrey, ne “Il contratto sociale”, utilizzò la teoria della selezione di gruppo per spiegare l’ordine sociale nel suo complesso. Chiaramente egli considera l’uomo una specie che ha deviato dal percorso di rettitudine seguito dagli altri animali.

Almeno Ardrey è stato accurato. La sua decisione di distaccarsi dalla teoria ortodossa è stata una decisione conscia, e questo gli va riconosciuto.
Forse una delle ragioni per cui la teoria della selezione di gruppo è accattivante è che è molto in linea con gli ideali politici e morali che la maggior parte di noi condividono. Frequentemente potremmo comportarci egoisticamente come individui, ma nei nostri momenti più idealistici onoriamo e ammiriamo quelli che antepongono il bene degli altri al proprio.

Però ci impasticciamo un po’ quando si tratta di decidere l’interpretazione della parola “altri”. Spesso l’altruismo all’interno di un gruppo va di pari passo con l’egoismo tra i gruppi. Questo sta alla base delle corporazioni.
Su un livello diverso, la nazione è il più grande beneficiario del nostro sacrificio altruistico di noi stessi, e ci si aspetta che dei giovani uomini muoiano per il bene maggiore della patria nel suo complesso. Inoltre, essi vengono incoraggiati ad uccidere altri individui dei quali non sanno nulla tranne che appartengono a una nazione diversa. (…)

Recentemente c’è stata una reazione contro il razzialismo e il patriottismo, e una tendenza a sostituire la specie umana nel suo complesso come oggetto del nostro altruismo. Questo allargamento all’umanità dell’obiettivo del nostro altruismo ha una conseguenza interessante, che, ancora una volta, sembra sostenere l’idea del “bene della specie” in evoluzione.
I politici liberali, che normalmente sono quelli che parlano con maggiore convinzione dell’etica di specie, ora si indignano fortemente verso le persone che si spingono un po’ oltre nell’allargamento dell’altruismo, in modo da includere anche altre specie.

Se dico che sono più interessato ad impedire il massacro delle balene di quanto sia interessato a migliorare le condizioni domestiche delle persone, è probabile che alcuni miei amici restino sconvolti. C’è l’antico e profondo sentimento che i membri della propria specie meritino una considerazione morale speciale rispetto ai membri di altre specie.
Uccidere persone al di fuori della guerra è, tra i crimini più comuni, quello che viene punito più severamente. L’unica cosa che è vietata più fortemente dalla nostra cultura è mangiare le persone (anche se sono già morte).

Però mangiamo con piacere i membri di altre specie. Molti di noi rabbrividiscono quando viene giustiziato anche il più orribile dei criminali umani, mentre tolleriamo allegramente il massacro senza processo di animali che causano inconvenienti piuttosto secondari. Addirittura uccidiamo membri di altre specie innocue per divertimento o come diversivo. Un feto umano, che non possiede sentimenti umani più di quanto li possieda un’ameba, gode di una reverenza e di una protezione legale che sorpassano di gran lunga quelle garantite ad uno scimpanzé adulto.

Eppure lo scimpanzé sente, pensa, e — secondo recente evidenza sperimentale — è persino capace di imparare una forma di linguaggio umano. Il feto appartiene alla nostra specie, e per questo acquisisce automaticamente privilegi speciali e diritti.
Io non so se questa etica dello “specismo”, per usare il termine di Richard Ryder, sia sul piano logico più coerente e sostenibile del “razzismo”. Ciò che so è che non ha alcuna base scientifica nella biologia evoluzionistica.

La controversia nell’etica umana su quale sia il livello giusto in cui l’altruismo è desiderabile — la famiglia, la patria, la razza, la specie, o tutte le cose viventi — è accompagnato da una parallela controversia in biologia sul livello a cui ci si deve attendere altruismo secondo la teoria dell’evoluzione.
Anche il sostenitore della selezione di gruppo non si sorprenderebbe di trovare membri di gruppi rivali che si comportano in modo ostile tra di loro: in questo modo, come i membri di un sindacato o i soldati, essi favoriscono il proprio gruppo nella competizione per risorse limitate.

Ma allora vale la pena di chiedere al sostenitore della selezione di gruppo come decide quale livello è quello importante. Se la selezione avviene tra i gruppi diversi all’interno di una specie, e tra le specie, perché non dovrebbe anche avvenire tra raggruppamenti più larghi?
Le specie si raggruppano in generi, i generi in ordini, e gli ordini in classi. I leoni e le antilopi appartengono entrambi alla classe dei mammiferi, come noi.
Allora non dovremmo aspettarci che i leoni si astengano dall’uccidere le antilopi, “per il bene dei mammiferi”?

Certamente dovrebbero cacciare gli uccelli o i rettili piuttosto, al fine di impedire l’estinzione della classe. Ma allora, che dire del bisogno di perpetuare l’intero filone dei vertebrati?
È semplice per me ridurre all’assurdo queste tesi, ed evidenziare le difficoltà della teoria di selezione di gruppo, ma resta ancora da spiegare l’evidente esistenza dell’altruismo individuale. Ardrey arriva a dire che la selezione di gruppo è l’unica spiegazione possibile per un comportamento come i “salti” delle gazzelle di Thomson.

Questo salto vigoroso ed eclatante della gazzella di fronte al predatore è l’analogo dei richiami d’allarme degli uccelli, poiché sembra avvisare i compagni del pericolo mentre apparentemente attira l’attenzione del predatore sulla gazzella stessa che effettua il salto. Abbiamo la responsabilità di spiegare questi fenomeni, ed è ciò che io affronterò nei capitoli successivi.

Prima di far ciò devo argomentare la mia credenza che il modo migliore di guardare l’evoluzione sia in termini di selezione che avviene al livello più basso di tutti. In questa mia opinione sono stato influenzato pesantemente dal grande libro di G. C. Williams “Adaptation and natural selection”. (…).
Avanzerò la tesi che l’unità fondamentale di selezione, e quindi dell’interesse egoistico, non è la specie, né il gruppo, e neppure, in senso stretto, l’individuo. È il gene, cioè l’unità di ereditarietà.

Per alcuni biologi potrebbe sembrare un punto di vista estremo. Spero che, quando capiranno cosa intendo, saranno d’accordo che, in sostanza, è un punto di vista ortodosso, sebbene espresso in un modo non familiare. >>

RICHARD DAWKINS
 

sabato 19 aprile 2014

Il Dawkins egoista - 1

Ho già parlato più volte in questo blog del libro che io considero fondamentale per capire la vera essenza della natura umana, ovvero IL GENE EGOISTA del grande biologo evoluzionista Richard Dawkins.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dalla parte iniziale del libro. Una lettura piacevole ed appassionante.
LUMEN

 
<< La vita intelligente su un pianeta raggiunge un traguardo cruciale quando per la prima volta comprende le ragioni della sua stessa esistenza. Se delle creature superiori provenienti dallo spazio visiteranno mai la terra, la prima domanda che faranno, per valutare il livello della nostra civilizzazione, sarà “hanno già scoperto l’evoluzione?”.
Organismi viventi sono esistiti su questa terra, senza nemmeno sapere perché, per più di tre miliardi di anni, prima che la verità finalmente albeggiasse su uno di loro. Il suo nome era Charles Darwin.

Ad essere onesti, altri avevano raggiunto piccoli frammenti della verità, ma fu Darwin che per primo mise insieme una spiegazione coerente e sostenibile del perché noi esistiamo. Darwin ci ha permesso di dare una risposta sensata al bambino curioso la cui domanda dà il titolo a questo capitolo: [Perché esistono le persone].
Non dobbiamo più ricorrere alla superstizione quando ci troviamo di fronte ai problemi profondi: la vita ha un significato? Perché esistiamo? Che cosa è l’uomo?

Dopo aver posto l’ultima di queste domande, l’eminente zoologo G. G. Simpson si espresse come segue: “Quello che voglio enfatizzare adesso è che tutti i tentativi di rispondere a questa domanda prima del 1859 sono privi di valore, e faremmo meglio ad ignorarli completamente”.
Oggi la teoria dell’evoluzione non è soggetta a dubbi più di quanto lo sia la teoria che la terra gira intorno al sole, ma le implicazioni vere della rivoluzione di Darwin devono ancora essere largamente comprese.

La zoologia è ancora una materia secondaria nelle università, ed anche coloro che scelgono di studiarla prendono spesso questa decisione senza apprezzare il suo profondo significato filosofico.
La filosofia e le materie cosiddette umanistiche vengono ancora insegnate come se Darwin non fosse mai vissuto. Non c’è dubbio che questo cambierà col tempo. Comunque, questo libro non va inteso come un’apologia generale del darwinismo.
Invece, esplorerà le conseguenze della teoria dell’evoluzione in una questione particolare. Il mio scopo è esaminare la biologia dell’egoismo e dell’altruismo.

A parte il suo interesse accademico, l’importanza umana di questa materia è ovvia. Tocca ogni aspetto delle nostre vite sociali, il nostro amare e odiare, combattere e cooperare, il nostro donare e rubare, la nostra cupidigia e generosità.
Anche altri libri come “On Aggression” di Lorenz e “The social contract” di Ardrey avrebbero potuto accampare quest’obiettivo. Il guaio di questi libri è che i loro autori hanno sbagliato completamente tutto.

Hanno sbagliato perché hanno frainteso il modo in cui funziona l’evoluzione. Hanno fatto l’assunzione errata che la cosa importante nell’evoluzione sia il bene della specie (o del gruppo) anziché il bene dell’individuo (o del gene). (…)
Prima di incominciare il mio argomento, vorrei spiegare brevemente che tipo di argomento è, e che tipo di argomento non è.

Se ci dicessero che un uomo ha vissuto a lungo, ed ha fatto carriera, nel mondo della malavita di Chicago, ci sentiremo legittimati a fare delle assunzioni su che tipo di uomo fosse. Potremo aspettarci che abbia alcune qualità come la durezza, il grilletto facile, e la capacità di attrarre amici leali.
Queste non sarebbero deduzioni infallibili, tuttavia è lecito fare delle inferenze sul carattere di un uomo se sai qualcosa della condizione in cui egli è sopravvissuto ed ha fatto carriera.

L’argomento di questo libro è che noi, e tutti gli altri animali, siamo macchine create dai nostri geni.
Come i gangster di successo a Chicago, i nostri geni sono sopravvissuti, in alcuni casi per milioni di anni, in un mondo altamente competitivo. Questo ci legittima ad aspettarci delle precise qualità nei nostri geni. Io sosterrò che una qualità predominante da aspettarsi in un gene di successo sia il totale egoismo.

Questo egoismo del gene di solito produrrà egoismo nel comportamento dell’individuo che possiede quel gene. Però, come vedremo, ci sono circostanze speciali in cui un gene può realizzare al meglio i suoi obiettivi egoistici incoraggiando una forma limitata di altruismo al livello dei singoli animali.

“Speciale” e “limitata” sono parole importanti in quest’ultima frase. Per quanto ci piaccia credere diversamente, l’amore universale e il bene della specie nel suo complesso sono concetti che semplicemente non hanno alcun senso, evolutivamente parlando.
Questo mi porta alla prima cosa da puntualizzare su cosa questo libro non è.

Io non sto sostenendo una moralità basata sull’evoluzione. Io sto dicendo come le cose si sono evolute.
Non sto dicendo come noi esseri umani dovremmo comportarci moralmente. Vorrei enfatizzare questo punto, perché so che corro il pericolo di essere frainteso da quelle persone, molto numerose, che non riescono a distinguere una dichiarazione di credenza in ciò che è vero, da una dichiarazione di credenza in ciò che dovrebbe essere.

La mia convinzione è che una società umana basata semplicemente sulla legge genetica dell’egoismo universale sarebbe una orribile società in cui vivere. Ma, sfortunatamente, non importa quanto possiamo deplorare qualcosa, questo non la fa smettere di essere vera.
Questo libro è scritto soprattutto per essere interessante, ma se volete estrarne una morale, considerate questo un avvertimento.
Siate avvertiti che se volete, come me, costruire una società in cui gli individui cooperano generosamente e altruisticamente verso un bene comune, potete aspettarvi poco aiuto della natura biologica.

Cerchiamo di insegnare la generosità e l’altruismo, perché siamo nati egoisti.
Comprendiamo quali sono gli obiettivi dei nostri geni egoisti, perché allora potremmo almeno avere la possibilità di sventare i loro piani, cosa che nessun’altra specie ha mai aspirato a fare.
Come corollario a queste osservazioni sull’insegnamento, va precisato che è una fallacia — molto comune — supporre che delle caratteristiche ereditate geneticamente siano per definizione fisse ed immutabili.

I nostri geni possono istruirci ad essere egoisti, ma non siamo necessariamente obbligati ad obbedire loro per tutta la nostra vita. Potrebbe soltanto essere più difficile imparare l’altruismo di quanto lo sarebbe se fossimo geneticamente programmati per essere altruisti.
Tra gli animali, l’uomo è l’unico dominato dalla cultura, dalle influenze apprese e tramandate. Alcuni direbbero che la cultura è così importante che i geni, egoisti o meno, sono virtualmente irrilevanti per la nostra comprensione della natura umana.

Altri non sarebbero d’accordo. Dipende tutto da dove vi collocate nel dibattito “natura contro cultura” come determinanti degli attributi umani.
Questo mi porta alla seconda cosa che questo libro non è: non è una difesa di una posizione o l’altra nella controversia natura/cultura.
Naturalmente ho le mie opinioni su questo, ma non le esprimerò, se non implicitamente nella visione della cultura che presenterò nell’ultimo capitolo.

Se i geni si rivelano totalmente irrilevanti per la determinazione del moderno comportamento umano, se siamo davvero unici tra gli animali in questo aspetto, quantomeno è ancora interessante indagare sulla regola di cui siamo recentemente diventati l’eccezione.
E se la nostra specie non è così eccezionale come ci farebbe piacere pensare, è ancora più importante che studiamo questa regola.

La terza cosa che questo libro non è: non è una descrizione dettagliata del comportamento dell’uomo o di qualunque altra specie animale. Userò i dettagli fattuali solo come esempi illustrativi.
Non dirò “se guardate il comportamento dei babbuini scoprirete che sono egoisti; quindi c’è un’alta probabilità che anche il comportamento umano sia egoista”.

La logica del mio argomento del “gangster di Chicago” è molto diversa. È la seguente. Gli umani e i babbuini si sono evoluti per selezione naturale.
Se guardate il modo in cui funziona la selezione naturale, sembra predire che qualunque cosa si evolve per selezione naturale debba essere egoista. Quindi, quando andiamo ad osservare comportamento dei babbuini, degli umani, e di tutte le altre creature viventi, dobbiamo aspettarci che siano egoisti.

Se ci accorgiamo che la nostra aspettativa è sbagliata, ad esempio perché il comportamento umano è davvero altruistico, allora siamo di fronte a qualcosa di strano, qualcosa che ha bisogno di una spiegazione
Prima di procedere, ci serve una definizione. Un’entità, come un babbuino, si dice altruista se si comporta in modo tale da migliorare le condizioni di vita di un’altra entità simile alle spese di se stessa.

Il comportamento egoistico ha esattamente l’effetto opposto. “Condizioni di vita” è definito come “probabilità di sopravvivenza”, anche se l’effetto sulle vere prospettive di vita e di morte è così piccolo da sembrare trascurabile.
Una delle sorprendenti conseguenze della versione moderna della teoria di Darwin è che influenze apparentemente minuscole ed irrilevanti sulla probabilità di sopravvivenza possono avere un enorme impatto sull’evoluzione.

Questo a causa dell’enorme quantità di tempo disponibile, che fa sì che anche delle influenze minuscole acquistino peso notevole.
È importante capire che le definizioni di cui sopra di altruismo ed egoismo sono comportamentali, non soggettive.

Qui non mi sto preoccupando della psicologia degli scopi. Non mi sto chiedendo se le persone che si comportano altruisticamente lo stanno facendo in realtà per scopi segretamente o inconsciamente egoistici.
Forse lo stanno facendo e forse no, e forse non lo sapremo mai, ma in ogni caso non è di questo che parla il libro. La mia definizione si preoccupa solo se la conseguenza di un’azione aumenta o diminuisce le prospettive di sopravvivenza del presunto altruista e le prospettive di sopravvivenza del presunto beneficiario.

È molto complicato dimostrare gli effetti del comportamento sulle prospettive di sopravvivenza a lungo termine. Nella pratica, quando applichiamo la definizione al comportamento reale, dobbiamo qualificarla con la parola “apparentemente”.
Un atto apparentemente altruistico è un atto che, superficialmente, sembra aumentare (anche di pochissimo) le probabilità che l’altruista muoia, e che il beneficiario sopravviva.

Spesso, guardando da vicino, si scopre che alcuni atti di apparente altruismo sono in realtà atti di egoismo dissimulati.
[Non è importante] che gli scopi soggiacenti siano segretamente egoistici, ma che l’effetto reale dell’azione sulle prospettive di sopravvivenza sono il contrario di ciò che in origine si pensava. >>

RICHARD DAWKINS

(continua)

sabato 12 aprile 2014

Destra, sinistra ed altre direzioni

Si sente parlare sempre più spesso di “crisi della politica” ed, in particolare, del superamento di due termini storici come “destra” e “sinistra”, che tanta parte hanno avuto nella storia del novecento.
E, d’altra parte, capita spesso di guardare al presente ed al futuro con gli occhiali (distorti) del passato.
Quelle che seguono sono alcune considerazioni di Aldo Giannuli, giornalista e politologo, sull’attuale situazione politica europea.
Si tratta di una analisi impietosa e decisamente estremista, ma difficile da contestare (dal sito Aldogiannuli.it).
LUMEN


<< Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del F.N. di Marine Le Pen [alle elezioni amministrative francesi di fine marzo] non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni.

Il P.S. paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi.

La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neo liberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro.

C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale.

Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neo liberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale), solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.

Dunque, non ha bisogno di sindacati e Parlamento ecc. che devono sopravvivere solo come feticci, mentre lo stato sociale deve semplicemente sparire e la stessa Costituzione diventa un inutile intralcio.

Ma la sinistra riformista senza Parlamento, sindacati e stato sociale, semplicemente non esiste. E tanto più nel tempo della crisi, quando il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia in favore dello stato d’eccezione.

La sinistra moderata, che si candida a gestire una forma temperata di dittatura neo liberista, può reggere, con difficoltà, questa posizione sin quando non precipiti la crisi; dopo, se conquista il governo è costretta solo a fare il lavoro sporco.

Quello che rende debole la posizione della sinistra “riformista” è la sua incapacità di immaginare un “altro” rispetto all’ordinamento esistente.

Costitutivamente, la sinistra moderata accetta la dittatura dell’esistente e ritiene che il suo compito sia quello di temperare le ingiustizie del capitalismo, con una serie di conquiste parziali e creando “nicchie” di giustizia sociale.

Quando poi, con la crisi, il capitalismo travolge irresistibilmente conquiste parziali e nicchie di equità, la sinistra moderata, in un primo momento, cerca di resistere, poi si appiattisce, in attesa di tempi migliori. Ma, così facendo, perde il contatto con la sua base ed inizia fatalmente a declinare, mentre la protesta sociale contro la repressione capitalistica, prende altre strade. A volte assai sbagliate o pericolose.

Ora, come in altre circostanze storiche simili, la sinistra moderata diventa la sinistra dell’impotenza, perché non comprende che, lungi dal ridurre il tiro ed abbassare i toni, queste situazioni esigono un confronto radicale sul modello di società: se il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia, alla sinistra spetta fuoriuscire dall’ordinamento esistente in direzione opposta.

Nelle circostanze storicamente presenti - qui ed ora - la questione che si pone è quella dell’ordinamento neo liberista dell’Europa, costruito intorno alla Ue ed all’Euro: c’è da decidere se cercare di mantenere in piedi tutta la baracca o buttarla giù a spallate.

Su questo sta montando una fortissima protesta popolare di cui il risultato francese è uno dei sintomi, ma non l’unico e non il più pesante.

Quello che si capisce, senza troppa difficoltà, è che vasti settori di ceti popolari (che ormai sfiorano il 25%-30% del corpo elettorale, senza tener conto degli astenuti) attribuiscono all’Euro ed alle politiche di mantenimento di esso (come il fiscal compact) la responsabilità dell’inasprirsi della crisi e, conseguentemente, chiedono il superamento della moneta unica.

E si badi che la protesta viene sia da chi guarda dal punto di vista dei paesi debitori (come Italia e Grecia), ma anche dio paesi creditori (come la Germania, Olanda o la Finlandia), che chiedono di tornare alla moneta nazionale o del Nord Europa, perché si ritengono danneggiati dalla condivisione della moneta con i “peccatori del debito”.

Le elezioni francesi, in questo senso, sono solo il vento che annuncia la tempesta di fine maggio. Di fronte a questo, chi si schiera più risolutamente in difesa dell’attuale ordinamento europeo è proprio la sinistra moderala del P.D., P.S. francese e spagnolo, S.P.D. ecc.

E persino la “Sinistra Europea”-Gue (accusata di essere euro-scettica perché osa mettere in discussione il fiscal compact) pur vagheggiano una vaga ed improbabile “altra Europa”, non osa mettere in discussione l’attuale assetto istituzionale europeo.

A testimoniare dell’incredibile ottusità dei socialisti francesi, viene l’appello alla “solidaritè repubblicaine” verso la destra gaullista.

Geniale: c’è una protesta che monta sulla base del fatto che la gente ritiene uguali sinistra e destra moderate ed i socialisti che fanno? Propongono il blocco elettorale comune fra loro e i gaullisti!

Con maggiore intelligenza, la destra ha lasciato subito cadere la proposta e si predispongono ad avere le mani libere nel rintuzzare l’assalto lepenista. >>

ALDO GIANNULI

sabato 5 aprile 2014

Infelice come una Pasqua

Quando si pensa all’Isola di Pasqua, vengono subito in mente i suoi enormi, sorprendenti, affascinanti (ma, in fondo, anche un po’ stupidi), testoni di pietra.
Ma questa piccola isola sperduta nel Pacifico, è molto studiata anche dagli antropologi, perché rappresenta un esempio “classico” (ed abbastanza recente) di come la perdita dell’equilibrio ecologico possa portare al rapido declino di una intera civiltà.
Ce ne parla Robert Krulwich in questo articolo sorprendente, ma anche un po’ inquietante, tratto da Effetto Risorse.
LUMEN


<< L'Isola di Pasqua è un piccolo lembo di terra di 63 miglia quadrate, a più di 1.000 miglia dal punto abitato più vicino nell'Oceano Pacifico.
Nel 1.200 ca. un piccolo gruppo di Polinesiani (…) si sono diretti lì, si sono insediati ed hanno cominciato a coltivare. Quando sono arrivati, il luogo era ricoperto da alberi: 16 milioni di alberi, alcuni che raggiungevano i 100 piedi di altezza.

Questi coloni erano agricoltori che praticavano l'agricoltura “taglia e brucia”, quindi hanno bruciato i boschi, aperto spazi e cominciato a moltiplicarsi. Ben presto l'isola aveva troppe persone, troppo pochi alberi e quindi, in sole poche generazioni, nessun albero.

Come racconta Jared Diamond nel suo best seller “Collasso”, l'Isola di Pasqua è “l'esempio più chiaro di una società che ha distrutto sé stessa sfruttando troppo le proprie risorse”.
Una volta iniziato l'abbattimento di alberi, non si è fermato finché l'intera foresta non era scomparsa. Diamond chiama questo comportamento auto-distruttivo “ecocidio” ed ha avvertito che il destino dell'Isola di Pasqua un giorno potrebbe essere il anche il nostro destino.

Quando il capitano James Cook ha visitato il posto nel 1774, il suo equipaggio ha contato circa 700 isolani (rispetto ad una popolazione precedente di migliaia), che vivevano vite marginali, le loro canoe ridotte a frammenti rattoppati di legno galleggiante.
E questa è diventata la lezione dell'Isola di Pasqua: di non osare di abusare delle piante e degli animali intorno a noi, perché se lo facciamo cadremo, tutti noi, insieme. (…)

Questa è la storia che tutti conosciamo, la storia del collasso. Ma ce n’è una nuova che è molto diversa.
Proviene da due antropologi, Terry Hunt e Carl Lipo, dell'Università delle Hawaii. Essi dicono “Piuttosto che un caso di fallimento abietto”, ciò che è accaduto alla gente dell'Isola di Pasqua “è un'improbabile storia di successo”.
Successo? Come può mai qualcuno chiamare ciò che è accaduto nell'Isola di Pasqua un “successo”? (…)

I professori Hunt e Lipo dicono che i cacciatori di fossili e i paleobotanici non hanno scoperto nessuna prova solida che i primi coloni Polinesiani diedero fuoco alla foresta per liberare la terra, ciò che viene chiamata “grande agricoltura preistorica”. Gli alberi sono morti, nessun dubbio. Ma al posto del fuoco, Hunt e Lipo danno la colpa ai topi.

I topi polinesiani (Rattus exulans) erano nascosti nelle loro canoe, dicono Hunt e Lipo, e quando sono sbarcati, senza nessun nemico e con molte radici di palma da mangiare, si sono dati alla baldoria, mangiando e distruggendo albero dopo albero e moltiplicandosi ad un ritmo furioso. (…)

Quando gli alberi se ne sono andati, la stessa cosa hanno fatto 20 altre specie di piante della foresta e 6 specie di uccelli di terra e diversi uccelli di mare.
Così c'è stata decisamente meno scelta di cibo, una dieta molto più ristretta, tuttavia la gente continuava a vivere sull'Isola di Pasqua e il cibo, sembra, non era il loro grande problema.
Per prima cosa, potevano mangiare topi [ehm… ndr].

Come riporta J.B. MacKinnon (…) gli archeologi hanno esaminato gli antichi cumuli di rifiuti sull'Isola di Pasqua cercando ossa di scarto ed hanno trovato “che il 60% delle ossa provenivano dai topi introdotti”. Quindi avevano trovato un sostituto di carne.
Per di più, siccome l'isola non aveva molta acqua e il suo suolo non era ricco, gli isolani hanno preso delle pietre, le hanno spaccate e sparpagliate sui campi aperti creando una superficie irregolare.

Quando soffiava il vento dal mare le pietre irregolari creavano flussi d'aria più irregolari che “rilasciavano i nutrienti minerali della pietra”, dice J.B. MacKinnon, il che ha dato ai suoli la quantità sufficiente di aumento dei nutrienti per sostenere i vegetali fondamentali.

Un decimo dell'isola aveva questi “giardini” di pietre spaccate e producevano cibo sufficiente “a sostenere una densità di popolazione simile a posti come l'Oklahoma, il Colorado, la Svezia e la Nuova Zelanda di oggi”.
Secondo MacKinnon, gli scienziati dicono che gli scheletri dell'Isola di Pasqua di quel tempo mostrano “meno malnutrizione degli Europei”. (…)
E, naturalmente, la gente che ha fame di solito non ha tempo ed energia per scolpire ed innalzare statue di 70 tonnellate intorno alla loro isola.

Perché questa è una storia di successo? Perché, dicono gli antropologi hawaiiani, i clan e le famiglie sull'Isola di Pasqua non sono crollate.
E vero, l'isola è diventata desolata, più vuota. L'ecosistema era severamente compromesso. Tuttavia, dicono gli antropologi, gli abitanti dell'Isola di Pasqua non sono scomparsi. Si sono adattati.

Non avevano legno per costruire canoe per andare a pescare al largo. Avevano meno uccelli da cacciare. Non avevano noci di cocco. Ma hanno continuato mangiando carne di topo e piccole porzioni di vegetali. Si accontentavano. (…)
Bene, forse non c'è stato “ecocidio”. Ma è una buona notizia? Dovremmo celebrare? Me lo chiedo.
Ciò che abbiamo qui sono due scenari che riguardano apparentemente il passato dell'Isola di Pasqua, ma che riguardano in realtà ciò che potrebbe essere il futuro del nostro pianeta.

Il primo scenario – un collasso ecologico – nessuno lo vuole. Ma pensiamo un attimo a questa nuova alternativa – in cui gli esseri umani degradano il loro ambiente ma in qualche modo “se la cavano”.
E' migliore? In qualche modo, penso che questa storia di “successo” sia altrettanto spaventosa. (…)

Gli esseri umani sono una specie molto adattabile. Abbiamo visto la gente crescere abituata alle baraccopoli, adattarsi ai campi di concentramento, imparare a vivere con qualsiasi destino gli si ponga davanti.
Se il nostro futuro è quello di degradare continuamente il pianeta, perdendo pianta dopo pianta, animale dopo animale, dimenticando ciò di cui una volte godevamo, adattandoci a circostanze inferiori, senza mai gridare “E' finita!” - accontentandosi sempre, questo non lo chiamerei “successo”.

Le persone non riescono a ricordare ciò che hanno visto i loro bisnonni, mangiato e amato del mondo. Sanno solo ciò che sanno. Per evitare una crisi ecologica, dobbiamo allarmarci.
E allora che tutti noi agiamo. La nuova storia dell'Isola di Pasqua suggerisce che gli esseri umani potrebbero non vedere mai l'allarme. (…).

Sull'Isola di Pasqua, la gente ha imparato a vivere con meno e dimenticato com'era avere di più. Forse è questo che ci accadrà. Eccola la lezione. E non è una lezione allegra.
Come dice MacKinnon: “Se state aspettando che una crisi ecologica persuada gli esseri umani a cambiare le loro relazioni problematiche con la natura, potreste aspettate molto, molto a lungo”. >>

ROBERT KRULWICH