sabato 31 maggio 2014

Il fondo del barile

Le grandi transizioni energetiche, che hanno accompagnato da sempre la storia dell’umanità, sono sempre molto complesse.
Ma quella che ci attende nel secolo XXI, ovvero la transizione, inevitabile, dai combustibili fossili (petrolio & co.) alle energie rinnovabili, minaccia di essere molto difficile da gestire, anche perché, probabilmente, molto più rapida di quanto ci aspettiamo.
Ce ne parla Luca Pardi, presidente di ASPO Italia, in questo breve post tratto da “Risorse, Economia, Ambiente”.
LUMEN


<< Nell’ultimo numero di “Le Scienze”, il prof. Vaclav Smil [afferma] che la transizione fra fonti fossili e fonti rinnovabili sarà lenta. (…)
In breve, Smil argomenta come segue: l’ottocento non fu, come molti credono, il secolo del carbone, ma (ancora) quello della legna, parimenti il novecento non è stato il secolo del petrolio, ma quello del carbone.
Le sostituzioni sono sempre state lente e quella delle rinnovabili non farà eccezione (…).

Ci sono almeno due motivi per mettere in discussione queste affermazioni: il primo è che è opinabile parlare di sostituzione in quanto le diverse fonti fossili si sono affiancate per soddisfare la domanda crescente di energia.
 Il secondo, e secondo me più importante, riguarda la prevalenza delle diverse fonti nei diversi periodi storici. Se l’affermazione di Smil è vera per quanto riguarda i valori assoluti, non lo è sul piano dell’importanza relativa.

Quest’ultimo punto può apparire più formale che sostanziale, ma in realtà non lo è. E’ vero che in valori assoluti il peso del carbone è minoritario in tutto il XIX secolo, ma il carbone rese possibile le prime fasi della rivoluzione industriale che esordì nell’isola Britannica dove le foreste erano finite.

Lo sviluppo della macchina a vapore e la crescita del settore siderurgico non sarebbe stata possibile con la legna e il carbone di legna. Il XX secolo è il secolo del petrolio non nella quantità assoluta, ma, ancora, nella centralità che questa fonte gioca fin dall’inizio del secolo, soprattutto a partire dalla meccanizzazione dell’agricoltura e dallo sviluppo della mobilità di uomini e merci.

E’ vero che nel XX secolo il carbone resta a lungo la fonte fossile dominante soprattutto per la produzione di energia elettrica. Ma nei paesi industrializzati e con l’accelerazione della globalizzazione economica in tutto il mondo il petrolio diventa in modo crescente la condizione necessaria per ogni altra produzione, inclusa l’estrazione del carbone e del gas, la loro distribuzione, la costruzione e la manutenzione degli impianti.

La questione non ha dunque un valore puramente accademico, ma una profonda valenza geopolitica, sociale ed economica.
La lotta per il controllo e la messa in sicurezza delle aree di produzione del petrolio sono intimamente connesse con l’origine, gli sviluppi e l’esito delle due guerre mondiali e degli altri confronti e scontri internazionali, che, non a caso, hanno come principale palcoscenico il Vicino Oriente sede dei maggiori giacimenti petroliferi conosciuti.

Sono le tensioni sul fronte della produzione petrolifera che innescano le principali crisi economiche nella seconda metà del secolo scorso, ed è una crisi che gioca un ruolo, a mio parere centrale, nell’innesco e nello sviluppo di quella iniziata nel 2007 con la cosiddetta crisi finanziaria dei “subprime”.

Il fatto è che qualsiasi perturbazione del mercato petrolifero manda le sue onde attraverso il sistema economico globalizzato creando inedite e imprevedibili, almeno secondo le scuole classiche di economia politica, figure di interferenza.

Il tempo presente è il tempo degli idrocarburi e, in particolare, del petrolio, per il semplice fatto che senza i suoi prodotti, i diversi tipi di combustibili liquidi, non esiste praticamente nessuna struttura del sistema industriale e non esistono le sue connessioni, il petrolio è la linfa vitale della civiltà attuale.

Possiamo essere d’accordo sul fatto che la sua sostituzione con le rinnovabili possa essere un processo lungo, ma si deve ammettere che il discorso allora si sposta sulla questione dell’esaurimento degli idrocarburi e sui loro effetti ambientali, sull’inesorabile caduta dell’EROEI del petrolio e del gas, sull’imminenza del picco, sull’entità dei suoi effetti e sulla difficoltà delle classi dirigenti globali di vedere il problema a causa della narrativa economica corrente che informa visioni del mondo, a mio modo di vedere, del tutto irrealistiche.

In questo frangente gli scienziati si trovano nella difficile situazione di non poter essere catastrofisti, pena il rischio di essere ignorati, e di non poter nemmeno, come molti, fanno suonare il ritornello del “tutto va ben madama la marchesa”.
Il punto è che se si immagina il mondo andare avanti in configurazione Businnes As Usual (BAU) per tutto il XXI secolo si può anche esercitarsi, come fa Smil, a disegnare il decollo delle nuove rinnovabili secondo una curva di apprendimento analoga a quella seguita dalle altre fonti in passato.

Ma se questo non è realistico, se si conviene sul fatto che il BAU non sia sostenibile, allora il problema è come accelerare il processo di sviluppo delle rinnovabili, di come trovarne di nuove e più efficienti, di come affiancarle a opportuni mezzi di accumulazione e immagazzinamento. Insomma di come creare un’infrastruttura energetica sostenibile che, va da se, si dovrà sviluppare all’interno di strutture sociali altrettanto sostenibili.

Il secolo XX sarà ricordato come il secolo del petrolio, il XXI, in assenza di una transizione sostenibile, rischia di essere ricordato come quello del collasso della civiltà. E’ arrivato il tempo in cui gli scienziati si devono rendere utili per tutti. Molti lo hanno capito e questo ci da qualche speranza. >>

LUCA PARDI

sabato 24 maggio 2014

Verde bandiera

Il dialogo virtuale di questa settimana ha come “vittima” l’ambientalista Jacopo Simonetta. Con lui parleremo della strana evoluzione dei movimenti “verdi”, che sembrano sfaldarsi politicamente proprio quando ci sarebbe più bisogno di loro. LUMEN

 
LUMEN – Dottor Simonetta, a quando risalgono le prime avvisaglie dell’attuale crisi ecologica ?.
SIMONETTA - Già durante gli anni ’70, la possibilità di un collasso socio-economico ed ambientale di scala globale era considerato uno scenario plausibile nel giro di 50 o 100 anni. All’epoca, il movimento ambientalista era forte e sembrava capace di cambiare la storia del mondo. Nelle sue infinite articolazioni, riusciva incidere in maniera marginale, ma avvertibile sulle decisioni politiche, almeno nei paesi occidentali dove esisteva una sostanziale libertà di stampa e di parola.
 
LUMEN – Ed oggi ?
SIMONETTA - Oggi stiamo vivendo le prime avvisaglie di un collasso che appare forse mitigabile, ma oramai inevitabile nel giro probabilmente di 10 o 20 anni. Dovrebbe essere il momento della rivincita: quello in cui al grido di “Lo avevamo detto” orde di ambientalisti si impongono finalmente nelle sedi del potere (governi e parlamenti, consigli di amministrazione, mass-media, ecc.), mentre accade esattamente il contrario. Le associazioni storiche sopravvivono appena, i partiti “verdi” scompaiono, i pochi limiti legali e morali faticosamente posti alla distruzione del pianeta vengono man mano rimossi senza pudori. E’ chiaro che ogni situazione particolare ha la sua storia ed i suoi problemi, ma il declino dell’ambientalismo è un fenomeno globale e, dunque, deve anche avere delle cause globali, oltre a quelle che riguardano, invece, questa o quella organizzazione in particolare.
 
LUMEN – Proviamo allora a porci qualche domanda. C’è stato qualcosa di sbagliato alla radice del movimento?
SIMONETTA - Penso di si, ma non essendo un politologo, posso proporre solo delle riflessioni basate sull'esperienza personale. Nel suo insieme, l’ambientalismo non ha saputo elaborare e divulgare un paradigma politico alternativo ai due che, all'epoca, si contendevano la scena: il liberalismo ed il socialismo. Molto presto infatti, la maggior parte degli aderenti e delle organizzazioni ambientaliste si sono lasciate aspirare e stritolare nella dialettica destra-sinistra che nulla aveva a che fare con il cuore del problema.
 
LUMEN – Quindi, in pratica, il movimento ambientalista si è diviso ?
SIMONETTA – Esatto. Da un lato coloro che hanno pensato che il sistema liberal-capitalista fosse sostanzialmente valido, salvo una serie di correzioni che dovevano esservi introdotte per garantire un adeguato livello di tutela ambientale. Sull'altro fronte coloro che, viceversa, ritenevano che il modello socialista fosse in grado di assicurare pace e benessere ai popoli e, dunque, con alcune integrazioni potesse acquisire anche la capacità di frenare il degrado degli ecosistemi, l’esaurimento delle risorse ecc.
 
LUMEN - In pratica, da entrambe le parti si è pensato di migliorare quello che già era disponibile, anziché elaborare qualcosa di autenticamente originale.
SIMONETTA – Purtroppo è così. Eppure, al di la dei parziali e limitati successi che entrambi gli schieramenti possono effettivamente rivendicare, non avrebbe dovuto volerci molto a capire che si trattava di una posizione perdente a priori.
Sia il capitalismo che il socialismo perseguono infatti il progresso indefinito della società. La differenza fra di essi non è quindi negli scopi ultimi, ma su quali siano i mezzi migliori per perseguirli, quali i modi più efficaci per accelerare il progresso e come ripartirne i benefici frutti. Entrambi i filoni dell’ambientalismo, accettando e facendo proprio il corpus centrale delle due dottrine socio-economiche di rispettivo riferimento, necessariamente hanno fatto proprio il nucleo centrale che le accomuna: il Progresso.
 
LUMEN - Un archetipo, che si porta dietro un vasto corollario di conseguenze.
SIMONETTA - Invece era proprio l’archetipo del progresso che avrebbe dovuto essere messo in discussione., ma ciò avrebbe significato attaccare la radice stessa del pensiero moderno alla cui origine troviamo padri del calibro di Bacone, Galileo, Cartesio, Hobbes, Boyle, ecc. Un filone di pensiero poi sviluppato dall'illuminismo e santificato da 2 secoli di scuola pubblica. Difficile immaginare un compito più arduo.

LUMEN – Un compito che non ha spaventato, per fortuna, quelli del Club di Roma, con il loro fortunato libro sui “Limiti dello sviluppo”.
SIMONETTA – Un grande lavoro, quello. Il risultato finale del loro studio era chiaro: qualunque risulti essere la dotazione di risorse del pianeta e qualunque sia il livello di tecnologia raggiungibile, il collasso del sistema sarà inevitabile ed il nostro destino tanto più fosco quanto più abbondanti saranno le risorse e potenti le tecnologie. Unica via di uscita dalla trappola era fermare la crescita demografica e la crescita economica prima di raggiungere una soglia critica che non era definibile con certezza, ma che si sapeva non essere lontana. Un messaggio chiaro che andava totalmente e direttamente contro l’intero apparato filosofico ed ideologico della “modernità”, chiudendo definitivamente con il mito delle “sorti magnifiche e progressive dell’umanità”.
 
LUMEN – Già derise da Giacomo Leopardi, nella famosa poesia La Ginestra.
SIMONETTA - Qualcosa di talmente forte che neppure tutti i membri del gruppo erano pronti ad accettarne le conseguenze, a cominciare dalla stessa Donella Meadows che volle mitigare il messaggio, lasciando aperta comunque la possibilità di un miglioramento qualitativo della vita degli uomini. In fondo, si disse, se facciamo sempre meglio con sempre le stesse cose, e non aumentiamo di numero, perché non dovremmo migliorare indefinitamente le nostre vite? In altre parole, si pensò che fosse possibile distinguere fra uno “sviluppo insostenibile” fatto soprattutto di crescita quantitativa ed uno “sviluppo sostenibile” fatto di buone pratiche, solidarietà sociale ed efficienza industriale.
 
LUMEN – Un errore pericoloso.
SIMONETTA - Oggi che “sviluppo sostenibile” ed “efficienza” sono divenute le parole d’ordine dei più folli e disperati tentativi per rilanciare una crescita oramai da un pezzo anti-economica, il loro suono risulta quasi osceno, ma all'epoca furono le parole d’ordine su cui si strutturarono entrambe le anime dell’ambientalismo: quella liberale e quella socialista. Ed esattamente questo fu, a mio avviso, l’errore di partenza che fece smarrire la strada a tutti noi che, a quei tempi, raccoglievamo fondi per salvare la Foca monaca o ciclostilavamo volantini nei sottoscala. Per essere efficace, il movimento ambientalista, avrebbe dovuto capire subito che il nemico non erano il capitalismo o il socialismo, ma i miti fondanti della modernità a cui entrambe queste scuole di pensiero politico attingono. Dunque una rivoluzione ben più radicale di quelle di moda all'epoca.
 
LUMEN – E passiamo alla seconda domanda. Secondo voi, avrebbe potuto andare diversamente?
SIMONETTA - Da subito, il progetto si incagliò su numerosi scogli. A mio avviso, due dei più importanti, che peraltro non vengono mai trattati, furono le conseguenze che politiche efficaci sul piano della sostenibilità avrebbero potuto avere sugli equilibri geo-politici e sulle politiche sanitarie.
LUMEN – Cominciamo dalla geo-politica.
SIMONETTA - Frenare la crescita economica avrebbe infatti comportato la probabilità di un parallelo rallentamento del progresso tecnologico. USA ed URSS (con i relativi satelliti) erano allora impegnati in uno scontro formidabile per il controllo del pianeta e nessuno dei due contendenti era in grado di assumersi un tale rischio, men che meno il blocco occidentale che aveva adottato (con successo) una strategia fatta di un dispiegamento di forze quantitativamente molto inferiore, ma tecnologicamente più avanzato. Così ci si concentrò sull'aspetto demografico e chi non è più giovane ricorderà che, in Europa, la sovrappopolazione era un argomento sulla bocca di tutti.
 
LUMEN – Per fortuna; ma, direi, con modesti risultati.
SIMONETTA - Alcuni paesi avviarono anche delle concrete politiche di riduzione delle nascite, in particolare l’India (poi abbandonate) e la Cina (tuttora vigenti in forma attenuata), ma nessuno si sognò neppure lontanamente di mettere in discussione gli effetti demografici che il fulmineo progresso della medicina stava avendo in tutto il mondo. Eppure, non è certo un segreto che la demografia dipende dall'equilibrio fra nascite e morti; e che con animali molto longevi come l’uomo gli effetti di fluttuazioni anche modeste da entrambe le parti hanno effetti complessi, destinati a farsi sentire nei decenni. Un argomento politicamente minato ancor oggi, tanto più allora che avevamo una salubre memoria delle follie criminali di Hitler e Stalin.
 
LUMEN – Due nomi che fanno sempre il loro effetto, anche quando non c’entrano nulla
SIMONETTA - Così, si preferì evitare l’argomento, sperando che la “transizione demografica” avrebbe risolto il problema da sola ed in tempo. In pratica, ci si affidò alla crescita economica per risolvere i problemi che questa stessa creava. Difficile che potesse funzionare ed infatti non ha funzionato. Sarebbe stato possibile affrontare diversamente l’argomento con un minimo di probabilità di successo? Penso di no.
 
LUMEN – Altri motivi ?
SIMONETTA - Un’altra ragione per cui, a posteriori, penso che non avrebbe potuto andare diversamente era la possibilità di comunicare il nostro messaggio. In buona parte del mondo (Russia, Cina e molti altri), semplicemente era vietato. Nei paesi occidentali era invece permesso, ma il nemico da battere si è dimostrato capace di assorbire non solo una parte dei quadri del movimento, ma anche fare proprie la retorica e la dialettica ambientaliste, assorbirne gli slogan modificandone il significato così da renderlo funzionale al proprio scopo fondamentale: la crescita. E poiché il significato delle parole cambia nel tempo a seconda di come queste vengono impiegate, ad oggi è giocoforza ammettere che il capitalismo ha vinto non solo sul piano politico, ma prima ancora su quello semantico, a tal punto che è diventato arduo lo stesso argomentare contro di esso.
 
LUMEN – Una astuzia notevole.
SIMONETTA - Ma anche al di la questi ed altri ostacoli, quali potevano essere le probabilità di successo di un movimento politico che, per essere coerente, avrebbe dovuto predicare la fine del progresso e del benessere materiale per tutti? Fin quando si è trattato di dire ai benestanti cittadini occidentali che dovevano rinunciare a quota parte del loro benessere, in molti si sono fatti avanti a dirlo, anche se con scarsi risultati.

LUMEN – Per esempio il francese Serge Latouche, con il suo movimento per la decrescita.
SIMONETTA - Ma era evidente che sarebbe stato del tutto inutile se, contemporaneamente, tutti gli altri popoli della terra non avessero rinunciato ad acquisire un analogo benessere: una cosa talmente “politicamente scorretta” che praticamente nessuno ha finora avuto il coraggio di dirla. Ma neppure ciò sarebbe bastato. Giunti alle strette degli anni ’70, fermare la crescita demografica era imperativo e non poteva essere fatto senza porre dei limiti al progresso della medicina. Una cosa assolutamente improponibile, con ottime ragioni perché fosse così. Dunque l’ambientalismo politico si trovò da subito stretto in un’impasse che avrebbe potuto essere superata solo con un radicale cambio di paradigma; un salto culturale talmente grande da non essere neppure tentato.

LUMEN -Terza domanda: ad oggi continua ad avere un senso fare dell’attivismo ambientalista? Se si, quale?
SIMONETTA - Bisogna ammettere che oggi è particolarmente imbarazzante fare discorsi ambientalisti. Che dovremmo dire? La maggior parte delle organizzazioni ancora attive continua a “suonare” allarmi ormai consunti dall'uso e dall'abuso. Che senso ha continuare a dire che “se non facciamo questo e quest’altro avverrà una catastrofe”, quando la catastrofe è in corso e non ha spostato di una virgola la direzione del sistema?
 
LUMEN – Purtroppo.
SIMONETTA - L’esempio più facile è quello del clima. 30 o 20 anni fa era giustificato dire: “Se non riduciamo le emissioni il clima peggiorerà e farà dei danni”. Che senso ha ripeterlo oggi, mentre sui teleschermi le immagini di alluvioni e siccità, tornado ed uragani si alternano quotidianamente alla pubblicità dell’industria energetica ed agli appelli per il “rilancio della crescita”? E con tale naturalezza che non ci si accorge nemmeno più della schizofrenia della cosa.

LUMEN – Ma non è giusto neppure arrendersi.
SIMONETTA – Certamente no. Che senso può avere andare in giro a dire che tanto oramai non c’è più niente da fare? A parte che ciò facilmente suscita reazioni ostili e gesti osceni, rischia anche di servire da pretesto per rimuovere anche i pochi veli di protezione che ancora mitigano la follia autodistruttiva del sistema economico. La risposta, ritengo, dipende essenzialmente dallo scopo che ci si prefigge. Se ci si danno finalità possibili, c’è sempre un senso a fare qualcosa. Lo scopo di partenza, dirottare il mondo su di un cammino di sostenibilità è fallito, ma abbiamo altre possibilità di azione, almeno tre.

LUMEN – Proviamo ad elencarle.
SIMONETTA - La prima sta venendo di moda con l’etichetta di “resilienza”. In estrema sintesi, si tratta di questo: preso atto dell’inevitabile, possiamo comunque prepararci in una certa misura agli eventi futuri ed aumentare le probabilità di sopravvivenza nostre e quelle dei nostri parenti ed amici. Si tratta di un campo praticamente sterminato, totalmente da inventare in cui ognuno può rendersi utile anche solo proponendo idee e consigli, magari sbagliati ma comunque capaci di stimolare altre idee in altre persone.

LUMEN – Passiamo alla seconda.
SIMONETTA - La seconda è che se non possiamo fare quasi più niente per migliorare il nostro destino, possiamo invece fare tantissimo per peggiorarlo ulteriormente. Anche solo evitare di fare cose stupide sarebbe un grandissimo vantaggio ed in questo penso che rivesta un ruolo importante la divulgazione scientifica. Se si riesce a capire, almeno in parte, cosa sta succedendo e perché, sarà meno facile farsi abbindolare da chi promette l’impossibile, naturalmente a patto di votarlo o di comprare i suoi prodotti.

LUMEN – La terza ?
SIMONETTA – La terza possibilità di azione riguarda il futuro remoto, e può essere descritta con la metafora delle “bottiglie gettate in mare”. Nessuno può sapere quale aspetto avrà il collasso visto dal nostro punto di vista, e neppure quanto tempo prenderà, né quale sarà il nostro personale destino. Ma possiamo contare sul fatto che le doti di resistenza e resilienza della specie umana faranno sì che, quando la vegetazione coprirà le rovine delle nostre megalopoli, ci saranno degli uomini a discutere di cosa siano quei grandiosi ruderi.
 
LUMEN - Possiamo davvero fare qualcosa ora per aiutarli ?
SIMONETTA - Io penso di si. Oggi disponiamo di un patrimonio di conoscenze scientifiche e di arte in ogni forma possibile, che sarebbe veramente stupido e criminale lasciar morire con noi. Io penso che dovremmo preoccuparci di divulgare il più possibile questo immenso patrimonio, proteggerne la parte materiale (opere, monumenti, musei, libri, ecc.) in modo da accrescere le probabilità che parte di tutto questo sopravviva alle fasi più violente e disperate del disfacimento della nostra civiltà. Molte delle opere che ci sono giunte dal nostro remoto passato sono sopravvissute grazie a persone che le hanno copiate, nascoste, protette, tramandate. Noi abbiamo in questo campo una possibilità praticamente infinita di azione.

LUMEN – Un pensiero per concludere.
SIMONETTA - In conclusione, ritengo che il movimento ambientalista fosse in partenza destinato a fallire il suo scopo principale, ma non è stato per questo inutile. Se il filone principale del movimento non ha potuto scalfire i paradigmi della civiltà moderna, l’ambientalismo ha nondimeno influenzato importanti frange del pensiero contemporaneo, creando i presupposti perché dei paradigmi veramente alternativi possano nascere, o rinascere, contribuendo forse in modo importante alla formazione delle civiltà che, probabilmente fra qualche secolo, si diffonderanno sulla Terra.


sabato 17 maggio 2014

Flora, fauna e cemento

L’intervista virtuale di questo post ha come vittima l’economista Maurizio Pallante, fondatore del “Movimento della decrescita felice”, con il quale parleremo dei guasti prodotti dalla costruzione e dalla cementificazione sfrenata che hanno colpito l’Italia in questi ultimi decenni, ma anche della possibilità di trovare un punto di equilibrio tra la tutela del territorio e una edilizia intelligente.. LUMEN


LUMEN – Professor Pallante, come sono state possibili le devastazioni dell’ambiente che si sono verificate in Italia nell’ultimo mezzo secolo ?
PALLANTE - I processi, devastanti e irreversibili, di trasformazione del paesaggio e, insieme ad essi, del sistema dei valori delle generazioni che li  abitavano, non si sarebbero potuti realizzare se non fossero stati vissuti come fattori di progresso, se non avessero avuto il consenso di tutti gli strati sociali, se tutti gli strati sociali non fossero stati convinti che avrebbero comportato miglioramenti alle loro condizioni di vita.
 

LUMEN – C’era quindi la ricerca, magari miope e distorta, di un maggior benessere.

PALLANTE – Sì. L’Italia del dopoguerra voleva crescere, muoversi verso la cultura industriale, l’urbanesimo, il progresso. Questi sono stati in sintesi i moventi del processo che, con l’apporto di una potenza tecnologica sempre maggiore, in poco più di cinquant’anni ha distrutto i paesaggi a cui gli esseri umani che li hanno abitati avevano aggiunto col lavoro di secoli bellezza alla bellezza originaria. Questi sono stati i capisaldi della cultura che lo hanno reso desiderabile e connotato positivamente nell’immaginario collettivo.

 
LUMEN - Cosa significa il verbo “crescere” quando viene applicato alle attività economiche e produttive ?
PALLANTE  - La crescita non è, come si fa credere e si fa finta di credere, l’aumento della produzione di beni che migliorano la qualità della vita, perché il parametro che la misura, il famoso PIL (prodotto interno lordo), può calcolare soltanto il valore monetario degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro, cioè le merci, ma non può dare nessuna indicazione sulla loro qualità, sulla loro utilità, o sui danni che causano agli ambienti e alle persone nei modi in cui vengono prodotte, quando vengono utilizzate e quando vengono smaltite, come una bilancia può misurare soltanto il peso e non può dare nessuna indicazione sulla qualità di ciò che pesa. Può indicare quanto pesa una certa quantità di mele, ma non se sono buone o cattive, mature, acide o appassite.
 
LUMEN – Mi sembrano considerazioni abbastanza ovvie e banali.
PALLANTE – In effetti lo sono, ma sono state escluse dalla valutazione della produzione di merci, e – in questo modo - la quantità ha preso il posto della qualità. «Più» è diventato sinonimo di «meglio». Mentre le economie finalizzate alla sussistenza, alla produzione di beni per auto-consumo, si fondano sulla misura, perché produrre più di quello che serve non avrebbe senso, le economie finalizzate alla crescita della produzione di merci si fondano sulla dismisura. 
 
LUMEN – Già gli antichi romani dicevano “in medio stat virus”.
PALLANTE - Per produrre sempre di più occorre in primo luogo accrescere in continuazione la potenza tecnologica, costruire macchine operatrici sempre più potenti in grado di aumentare la produttività. Ma se se si produce sempre di più occorre indurre le persone a consumare sempre di più, perché se tutto ciò che viene prodotto non venisse consumato, non si potrebbe continuare a produrre sempre di più. 
 
LUMEN – Un meccanismo infernale, direi.
PALLANTE – Sarebbe stato possibile devastare alcuni tra i paesaggi più belli d’Italia se il «più» non fosse stato identificato nell’immaginario collettivo col «meglio» ? Se il modo di produzione industriale e le innovazioni tecnologiche non fossero state considerate fattori di progresso perché consentono di accrescere la produzione di merci ? Se la crescita dei consumi di merci non fosse stata considerata un miglioramento rispetto all’auto-produzione di beni ? Se la salubrità dei luoghi e la salute umana fossero state considerate più importanti del reddito monetario ? 
 
LUMEN – Sicuramente no.
PALLANTE – Ne consegue che, oggi, non è possibile fermare la devastazione dei paesaggi senza una rivoluzione culturale che smonti nell’immaginario collettivo il valore della crescita.
 
LUMEN – E’ una parola…
PALLANTE - Tutti i piani regolatori hanno sempre previsto, si potrebbe dire «per definizione», consistenti aumenti delle superfici edificabili, indipendentemente dal colore politico delle giunte. Più in generale l’edilizia ha svolto una funzione di traino per la crescita economica in tutti i paesi industrializzati. Ma se la crescita del settore edile è il fattore trainante della crescita economica, e si è convinti che l’urbanesimo costituisca un progresso rispetto alle miserie della civiltà contadina, come si può pensare di ridurre le devastazioni paesaggistiche ponendo semplicemente dei limiti di legge a tutela dei paesaggi ?
 
LUMEN – In effetti, appare un’arma inadeguata.
PALLANTE - I paesaggi sono stati disegnati nei secoli dalla civiltà contadina. Pertanto la loro tutela, non fosse altro dal punto di vista idro-geologico, non si può realizzare se non nell’ambito di una rivalutazione della civiltà contadina e di un ridimensionamento dell’urbanesimo. Un’edilizia capace di aggiungere bellezza alla bellezza originaria dei luoghi si può sviluppare soltanto all’interno di un paradigma culturale che liberi il fare dalla finalizzazione a fare sempre di più (la crescita della produzione di merci) e lo ridefinisca nella sua connaturata dimensione qualitativa, facendolo tornare ad essere un fare bene finalizzato alla contemplazione di ciò che si è fatto.
 
LUMEN – Ed arriviamo quindi al concetto di “decrescita”.
PALLANTE – Sì. La decrescita, se correttamente intesa, è in grado di fornire il contesto culturale necessario a fare questo passaggio. La decrescita non è la riduzione quantitativa della produzione di merci. Non è la semplice sostituzione del segno più col segno meno davanti al valore monetario del PIL, perché in questo modo non si uscirebbe dalla valutazione quantitativa del fare.
 
LUMEN – Quindi la decrescita non va confusa con la recessione.
PALLANTE – Assolutamente no ! Tra decrescita e recessione c’è un rapporto analogo a quello che intercorre tra una persona che mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso di fare una dieta, e una persona che mangia meno di quanto vorrebbe perché non ne ha.
 
LUMEN – Una metafora perfetta !
PALLANTE - A partire dalla distinzione concettuale tra “beni” e “merci”, la decrescita si realizza, in primo luogo diminuendo la produzione e il consumo di “merci che non sono beni” (per esempio: l’energia che si disperde da una casa mal costruita), ma non anche dei beni che si possono ottenere solo in forma di merci (per esempio, un computer o una tac).
 
LUMEN – Mi pare ovvio.
PALLANTE - In secondo luogo si realizza aumentando la produzione e l’uso di beni che non passano attraverso uno scambio di denaro, o perché si possono più vantaggiosamente auto-produrre (per esempio: alcuni generi alimentari o alcune riparazioni), o perché si possono più vantaggiosamente scambiare sotto forma di dono e reciprocità nell’ambito di rapporti comunitari (molti servizi alla persona), o perché non possono essere comprati e venduti (i beni relazionali: l’amore, la solidarietà ecc.). La decrescita reintroduce criteri di valutazione qualitativi nel fare umano e si propone di ridurre gli scambi commerciali alla loro dimensione fisiologica rispetto ai più rozzi criteri di valutazione semplicemente quantitativa e di mercificazione totale utilizzati nel calcolo del PIL.
 
LUMEN – Quindi, una vera e propria rivoluzione culturale.
PALLANTE – Senza dubbio. Ma una rivoluzione in grado di costruire un diverso immaginario collettivo, definire un diverso sistema di valori e sviluppare una legislazione urbanistica finalizzata non solo a tutelare i paesaggi, ma a favorire la ripresa di quell’opera, sapiente e paziente, con cui gli esseri umani hanno aggiunto, nel corso dei secoli, bellezza alla bellezza originaria dei luoghi in cui vivono.

 

LUMEN – E all’interno di questo cambiamento di paradigma, cosa è possibile proporre, in concreto ?

PALLANTE – Si può cominciare con il blocco dell’espansione edilizia, a partire da una indagine conoscitiva degli edifici vuoti, che sono tanti, molti più di quello che si pensa. Un blocco da considerare non come una misura contenitiva, ma come una proposta progettuale per un futuro migliore, Dal dopoguerra a oggi non si è costruito solo troppo, ma si è anche costruito anche male, dal punto di vista estetico, ingegneristico, ambientale ed energetico.

 

LUMEN – Quindi il lavoro, in campo edilizio, non verrebbe a cessare.

PALLANTE – Certamente no. Si dovrà infatti procedere alla riqualificazione degli edifici esistenti, in particolare dal punto di vista energetico, non soltanto perché ciò consente di ridurre nella maniera più significativa le emissioni di anidride carbonica, ma anche perché la riduzione delle dispersioni termiche non comporta peggioramenti delle condizioni di benessere e ripaga i suoi costi d’investimento con la riduzione dei costi di gestione.

 

LUMEN – Che altro ?

PALLANTE – Si potrebbero anche avviare progressivi processi di decostruzione delle aree urbane più degradate e la loro ri-naturalizzazione, sull’esempio di quanto sta avvenendo a Detroit.

 

LUMEN – Una bella sfida.

PALLANTE  - Una politica urbanistica di questo genere consentirebbe di superare la crisi che attanaglia il settore dell’edilizia, dovuta principalmente alla saturazione del mercato ed al progressivo aumento degli edifici invenduti. Solo la riduzione della quantità e il miglioramento della qualità, coerentemente al paradigma culturale della decrescita sono in grado di ridare fiato al settore.

 
LUMEN – Scusate professore, ma mi sembra solo un bel sogno.
PALLANTE – Non sono d’accordo. Le possibilità che questa svolta possa avvenire sono maggiori di quanto si creda, perché da alcuni decenni non sono più soltanto alcuni architetti e urbanisti illuminati a formulare proposte di questo genere, ma anche settori sempre più vasti dell’opinione pubblica e della società civile. La svolta è partita dalla tanto vituperata sindrome NIMBY (ovvero “fatelo pure, ma non nel mio giardino”) che, seppure con connotazioni egoistiche, ha segnato la rottura dell’egemonia culturale della crescita, rimettendo in discussione la sua identificazione col concetto di progresso.
 
LUMEN – Una considerazione molto acuta.
PALLANTE - Oggi le grandi opere e i grandi impianti industriali che distruggono i paesaggi e la vita degli esseri umani che li abitano devono essere imposti con la forza, l’occupazione militare del territorio, la demonizzazione mediatica di chi li rifiuta. Una saldatura tra questi movimenti e gli intellettuali impegnati a costruire un paradigma culturale dove il fare torni ad essere un fare bene e il fine del fare bene sia la possibilità di contemplare ciò che si è fatto, può essere decisiva per imprimere una direzione positiva alla svolta della storia che stiamo vivendo.
 
LUMEN – Grazie professore. E speriamo che quello tra edilizia e territorio smetta finalmente di essere un rapporto perverso tra predatore e preda, e diventi un’intesa virtuosa tra buoni alleati per il bene comune.
 

sabato 10 maggio 2014

Novecento

Uno dei libri più belli che io abbia mai letto sulla storia del ‘900 (quello che Hobsbawm chiamava “Il secolo breve”) è “Confessioni di un revisionista”  dello storico e giornalista Sergio Romano.
Partendo dalla guerra civile di Spagna, da lui reinterpretata in chiave alternativa, Sergio Romano giunge a considerazioni molto acute e poco ortodosse sugli avvenimenti e le grandi tragedie che hanno segnato il secolo appena trascorso.
Riporto qui di seguito alcuni brevi passi tratti dal libro, di cui consiglio vivamente la lettura.
LUMEN



<< Vi sono Paesi in cui "revisionismo" ha conservato un significato negativo e porta cucito sul petto, anche quando passa da un contesto all'altro, un marchio d'infamia. Sono quelli il cui linguaggio politico è stato marcato da una lunga presenza comunista.

In Italia ad esempio, l'aggettivo "revisionista" quando fu applicato alle opere di Renzo De Felice sul fascismo conteneva una nota di biasimo, era pronunciato a bocca storta e suggeriva implicitamente ai lettori la stessa cautela che i preti raccomandano ai loro allievi nel momento in cui debbono autorizzare la lettura di un libro interdetto.

Non credo di essere più revisionista di quanto debba essere abitualmente un qualsiasi studioso di storia. Ma se rifiutassi di fregiarmi della parola concederei un punto al gergo comunista e darei un contributo al cattivo uso che della parola si è fatto in Italia per molti anni. Ecco quindi le "confessioni di un revisionista".


La Spagna distorta - I miei critici più seri sono generalmente di sinistra - comunisti, ex comunisti, simpatizzanti del vecchio Pci - e fortemente convinti che la sollevazione militare del luglio 1936 sia una brutale violazione della legalità repubblicana.
Hanno ragione naturalmente. L'alzamiento fu preparato in segreto da un gruppo di cospiratori e fu anticipato di qualche ora (dal mattino del 18 luglio alla sera del 17) quando i "quattro generali" ebbero l'impressione che la loro trama stava per essere scoperta. Nulla quindi di più illegale.

Mi sorprende tuttavia che uomini di sinistra, cresciuti alla dura scuola del realismo marxista, esprimano giudizi ispirati a un astratto legalismo.
Fu "legale" forse la decisione con cui Lenin bruscamente decise la chiusura dell'Assemblea costituente a Pietrogrado il 19 gennaio 1918?
Furono "legali" gli scioperi generali, gli "assalti al palazzo d'Inverno", i colpi di mano e le abdicazioni forzate con cui i comunisti andarono alla conquista del potere nel primo e nel secondo dopoguerra?
La prima banale constatazione da farsi, in un dibattito sul revisionismo, è che le ideologie parlano dell'amico con criteri assai diversi da quelli che usano quando parlano del nemico.

Per spiegare le violenze e le illegalità della rivoluzione d'Ottobre la storiografia di sinistra risale indietro nel tempo e racconta diffusamente le crudeli vessazioni del regime zarista.
Per spiegare la guerra spagnola invece sceglie un evento e ne fa il "punto zero" della sua ricostruzione.
In questo caso il punto zero è l'alzamiento del 17 luglio 1936. I generali sono cattivi perché la Spagna del 1936 è buona, repubblicana, democratica, progressista, fremente di valori civili e di umane speranze.

Si dimentica tutto ciò che è accaduto negli anni precedenti: l'ammutinamento della guarnigione di Barcellona nel settembre del 1923, l'esplosione del separatismo catalano, la dittatura di Primo de Rivera, i tre tentati colpi di Stato degli anni in cui tenne il potere, la partenza del re nel 1931, la rivolta del generale Saniúrjo nell'agosto del 1932, l'insurrezione anarchica e sindacalista di Barcellona nel gennaio del 1933, la vittoria delle destre nel novembre dello stesso anno, la nuova insurrezione sindacalista e anarchica di Barcellona in dicembre, la proclamazione dell'indipendenza catalana nell'ottobre del 1934, l'insurrezione dei minatori delle Asturie e l'instaurazione di un regime comunista in quella regione negli stessi giorni. (...)

Si dimentica che nella notte fra il 12 e il 13 luglio un drappello di Guardias de asalto repubblicane cercò dapprima di eliminare uno dei maggiori esponenti della destra, José Maria Gil Robles, e uccise poi, quando non riuscì a trovarlo, il leader monarchico José Calvo Sotelo.
Si trattò sostanzialmente di un "delitto Matteotti". Certo, come osservano gli storici progressisti della guerra di Spagna, gli uccisori di Calvo Sotero vollero vendicare la morte di un loro tenente, José del Castillo, ucciso da un gruppo di falangisti nel pomeriggio del 12.
Ma non vi è atto di violenza o terrorismo purtroppo, che non disponga di un alibi e non possa invocare un torto da raddrizzare o una ingiuria da "lavare con il sangue". Resta l'impressione che nella storiografia progressista i Matteotti destra meritino meno pietà di quelli di sinistra. 


L'equivoco comunista - L'Italia aveva una gran voglia di uscire dalla guerra tra le file dei vincitori. Fu necessario quindi dimostrare che il Paese aveva dissentito, cospirato, resistito; e come in Francia questa bugia, o grossa esagerazione, conferì un ruolo nazionale al partito che aveva avuto nella Resistenza un ruolo determinante.
Grazie a Togliatti e al suo "comunismo tricolore" il Pci divenne una forza democratica, antifascista, nazional-popolare. Grazie alla sua accorta opera di reclutamento fra i giovani intellettuali del regime, divenne erede del fascismo di sinistra e titolare del patrimonio di speranze che la "rivoluzione fascista" aveva suscitato nelle giovani generazioni. (...)

Come in Francia quindi i comunisti italiani ebbero un diritto di sorveglianza e monitoraggio sulla storia nazionale e sulla propria.
Poterono sostenere che erano stati sempre democratici e antifascisti.
Poterono affermare impunemente che nei dieci anni dalla guerra di Spagna alla fine della seconda guerra mondiale avevano sempre combattuto dalla parte della libertà.
Poterono passare un velo di silenzio su ciò che era accaduto ai comunisti italiani in Unione Sovietica durante gli anni Trenta quando alcuni di essi (Togliatti ad esempio) furono complici di Stalin e molti altri ne furono vittime.
Poterono controllare, se non zittire, il dibattito sull'Urss e sul comunismo nelle università, nei libri di testo, nei luoghi in cui si elaborava l'ortodossia culturale del Paese.
E poterono infine con grande ambiguità tenere un piede a Roma e un piede a Mosca, da cui ricevettero un sostegno finanziario e logistico.

Confesso che mi è sempre stato difficile capire perchè i collaborazionisti della Germania hitleriana fossero moralmente più riprovevoli di quei comunisti dell'Europa occidentale che per molti anni dopo alla scuola moscovita del partito, accettarono il denaro di un Paese che era virtualmente nemico del loro, mantennero in vita una struttura attrezzata con passaporti falsi e radio ricetrasmittenti cortesemente forniti dal KGB.
Ecco alcune delle storture concettuali e delle bugie che continuarono a circolare in alcuni Paesi dell'Europa continentale nel, secondo dopoguerra.

La guerra fredda ebbe il merito di dissolvere la falsa alleanza tra le democrazie e l'URSS, ma non poté impedire che i partiti comunisti, soprattutto in Francia e in Italia, facessero figura di "forze nazionali, democratiche, popolari antifasciste".
Il risultato fu la sopravvivenza nella società europea di una intelligencija progressiva, fiancheggiatrice ("compagni di viaggio", nella sarcastica definizione di Lenin) che continuò a sperare, spesso perfino in buona fede, nella conciliabilità fra comunisti e democrazia. 


Bugie e verità - Questo libro non si propone di contraddire per partito preso alcune "verità" del secolo o di rovesciare alcuni dei giudizi di valore attraverso i quali abbiamo guardato agli avvenimenti del nostro tempo.
Esso prende spunto da alcune constatazioni.
La fine del secolo coincide con la morte del comunismo, il collasso del sistema sovietico e la fine della guerra fredda.

Sono finiti gli anni in cui il comunismo era per molti una "promessa", l'Unione Sovietica rappresentava la sua incarnazione terrena e l'America costituiva, per chi aveva interessi opposti, la migliore garanzia contro il "pericolo rosso".
Sono finiti in altre parole gli anni in cui gli interessi o le convinzioni costringevano ciascuno di noi a difendere la storia del comunismo contro quella delle democrazie o viceversa, la "storia di sinistra" contro la "storia di destra" o viceversa. (...)

Oggi [il libro è del 1998] le storie parziali, interessate, strumentali o reticenti hanno perduto la loro giustificazione, e diventano bugie gratuite o manifestazioni da pigrizia intellettuale.
Per vincere le elezioni, tanto per fare un esempio, i Democratici di Sinistra non hanno più bisogno di dimostrare che la guerra civile spagnola fu la guerra dei buoni contro i cattivi e i protocolli segreti tedesco-sovietici furono un geniale accorgimento di Stalin per sfuggire all'accerchiamento delle potenze capitaliste.

Per andare al potere Alleanza Nazionale non ha più bisogno di difendere il retaggio fascista, rivendicare l'esistenza di un fascismo sociale o dimostrare che il comunismo fu peggio del fascismo.
Il passato al di là della censura è definitivamente passato. Può essere letto, giudicato, pesato e valutato con gli strumenti della storia.

Scopriremo così che anche il XX secolo, come i secoli precedenti, è fatto di uomini e Stati che non sono mai stati né completamente buoni né completamente cattivi.
Smetteremo di giudicare gli avvenimenti in funzione degli effetti desiderati e capiremo che essi possono essere compresi soltanto alla luce degli interessi e delle intenzioni dei protagonisti.
Capiremo che il grande protagonista delle vicende umane è il Caso, vale a dire il risultato imprevedibile di una combinazione incalcolabile di avvenimenti.

E' probabile che questo "ritorno alla storia" provocherà in molti studiosi una sorta di smarrimento.
Verranno privati di quella storia, lineare progressiva e teleologica in cui hanno fermamente creduto. E dovranno abituarsi a lavorare nel fango della realtà dove tutto è ambiguo e ambivalente.
Ma si accorgeranno finalmente che il mondo, come disse molti anni fa un intelligente uomo politico non va né a destra né a sinistra: va in tondo. >>

SERGIO ROMANO

sabato 3 maggio 2014

Leggi & Comandamenti

LUMEN – Signor Mosè, anzitutto grazie per essere venuto.

MOSE’’ – P-p-prego.
LUMEN – So che siete un po’ balbuziente, ma faremo in modo di mettervi talmente a vostro agio, che non avrete più problemi.

MOSE’ – S-speriamo.
LUMEN – Vorrei parlare un po’ con voi dei famosi 10 comandamenti che riceveste dal Signore sul Monte Sinai.

MOSE’ – V-veramente furono un po’ di più.
LUMEN – Come un po’ di più ? A noi ne insegnano solo 10.

MOSE’ – Io e-ero là: v-volete che non lo sappia ?
LUMEN – Per carità, ci mancherebbe. Dico solo che non lo sapevo.

MOSE’ – E non siete il solo. Il fatto è che quello parlava e p-parlava…
LUMEN – Un tipo logorroico ?

MOSE’ – Molto, direi. Comunque, poi li hanno fatti diventare più o meno 10. Quindi, se lo preferite, usiamo pure quel numero lì.
LUMEN – Grazie.

MOSE’ - Però, che giornata fu quella !
LUMEN – Me lo immagino. Tra l’altro, avete visto ? Siete già migliorato nel parlare.

MOSE’ – Cosa ? Ah sì, è vero.
LUMEN – Allora incominciamo.

MOSE’ – Incominciamo pure. Però sia chiara una cosa: io vi elencherò i comandamenti veri, quelli originali che sono stati rivelati a me. Se poi, in seguito,  li hanno manipolati e vi hanno raccontato un testo diverso, non mi interessa.
LUMEN – D’accordo.

MOSE’ -  Primo: Io sono il Signore tuo Dio, che ti fece uscire dal paese d'Egitto, dalla casa degli schiavi. Non avrai altri dèi al mio cospetto.
LUMEN – Una bella impresa, non lo nego. Però se vi avesse evitato la schiavitù, sin dall’inizio, non era meglio ?

MOSE’ – Mah, non  so. Forse era per metterci alla prova o per temprarci il carattere. Lui ci vuole molto bene, sapete ?
LUMEN – Figuriamoci se vi volesse male…

MOSE’ – Secondo: Non farti alcuna scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque al di sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li adorare, perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce il peccato dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione, per coloro che mi amano ed osservano i miei comandamenti.
LUMEN – Scusate, ma anche i figli e i figli dei figli ? E che ne possono loro se il padre era un idolatra ?

MOSE’ – Ma i discendenti ricevono anche la bontà di Dio, se il padre l’ha meritata.
LUMEN – Ho sentito; ma vi pare lo stesso una cosa giusta ? E poi se uno si trova col nonno idolatra ed il padre rispettoso, lui da che parte finisce ? Da quella dei puniti o da quella degli amati ?

MOSE’ – E’ una bella domanda, in effetti. Non ci avevo mai pensato.  
LUMEN – Beh, andiamo avanti.

MOSE’ – Terzo: Non pronunciare il nome del Signore Dio tuo invano; perché il Signore non lascerà impunito chi avrà pronunciato il suo nome invano.
LUMEN – Questa sembra facile, ma forse c’è un trabocchetto anche qui.

MOSE’ – E quale sarebbe ?
LUMEN – Se uno pronuncia il nome di Dio per chiedere una grazia e Dio non lo accontenta, vuol dire che ha pronunciato il suo nome invano ? E come faceva a saperlo prima ?

MOSE’ – Ma Dio accoglie sempre le richieste del suo popolo.
LUMEN – Ah sì, davvero ? Sempre, sempre ? A me non sembra proprio.

MOSE’ – Sì, insomma, quasi sempre. Cioè spesso. Cioè, voglio dire, qualche volta. Ma è solo perchè il pensiero di Dio è imperscrutabile, ecco perché.
LUMEN – Proprio quello che dicevo io.

MOSE’ – Quarto: Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Durante sei giorni lavorerai e compirai ogni tua opera ma il settimo è giorno di totale cessazione del lavoro e dedicato al Signore Dio tuo. Non farai alcun lavoro né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bestiame né il forestiero che si trova nella tua città poiché in sei giorni il Signore creò il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che contengono, riposò nel settimo giorno e per questo il Signore ha benedetto il settimo giorno santificandolo.
LUMEN – Quindi nell’ultimo giorno della settimana non si deve fare nulla, ma proprio nulla.

MOSE’ – Assolutamente nulla.
LUMEN – Neppure mangiare ?

MOSE’ – Beh, mangiare sì.
LUMEN – E chi lo prepara il cibo ?

MOSE’ – Le donne direi.
LUMEN – E preparare il cibo non è lavorare ?

MOSE’ – Ma le donne non contano.
LUMEN – Questo sistema tutto.

MOSE’ – Quinto: Onora tuo padre e tua madre, affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il Signore tuo Dio ti dà.
LUMEN – Non ho capito bene la seconda parte della frase.

MOSE’ – Nemmeno io, se devo essere sincero. Ma mi basta la prima. Non siete d’accordo ?
LUMEN – Sono d’accordissimo, ci mancherebbe. La famiglia è la base di tutta la società, anche se “onorare” mi pare un po’ eccessivo. Direi che “amare” è più corretto e sensato. Ma andiamo avanti.

MOSE’ – Sesto: Non uccidere.
LUMEN – Ma davvero ? Volete farmi credere che voi e il vostro popolo non avete mai ammazzato nessuno ?

MOSE’ – Ma certo che abbiamo ammazzato, ed anche in grande quantità ! Persone, tribù, città intere, se ci riuscivamo. E sempre grazie al potente aiuto del Signore, che interveniva al nostro fianco da lassù.
LUMEN – Mi pare di intravedere una certa nostalgia.

MOSE’ – Eh sì. Che tempi erano quelli. Che soddisfazioni ci siamo tolte.
LUMEN – E non vi pareva una violazione del sesto comandamento ?

MOSE’ – Ma no, cosa dite ? Erano tutti appartenenti ad altri popoli, quindi non contavano.
LUMEN – Bel ragionamento. Quindi il comandamento vale solo per il vostro popolo ?

MOSE’ – Mi sembra ovvio. Il Signore era il Dio del nostro popolo, mica di tutti gli altri !
LUMEN – Ineccepibile ! Erano proprio altri tempi…

MOSE’ – Settimo: Non commettere adulterio.
LUMEN – Mi pare giusto, la fedeltà in una coppia è una cosa importante. Però mi sembra che, ai tempi, le concubine, meglio se schiave, fossero abbastanza popolari.

MOSE’ – Che vi devo dire: lo spirito è forte ma la carne è debole. C’erano in giro dei “pezzi di schiava“ che vorrei vedere voi a resistere.
LUMEN – E le mogli che dicevano ?

MOSE’ – Le mogli stavano zitte e buone. Cosa volete che dicessero. E poi il comandamento era soprattutto per loro.
LUMEN – E se qualcuna sgarrava, c’era una bella lapidazione pronta per lei.

MOSE’ – Per forza. Dovremmo forse infrangere la legge del nostro popolo ?
LUMEN – Una legge così lapidaria, poi…

MOSE’ – Cos’è, fate lo spiritoso ?
LUMEN – Per carità. Andiamo avanti.

MOSE’ – Ottavo: Non rubare.
LUMEN – Giustissimo. Ovviamente, il divieto vale sempre e solo verso e persone del vostro popolo; gli stranieri sono esclusi.

MOSE’ – Questo mi pare ovvio.
LUMEN – E poi parlano di comandamenti universali. Mah…

MOSE’ – Nono: Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
LUMEN – Che è sempre il prossimo del vostro popolo.

MOSE’ – Certamente.
LUMEN – E, se Dio vuole (pardon), siamo alla fine.

MOSE’ – Decimo: Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare sua moglie, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.
LUMEN – Una bella elencazione, non c’è che dire. Da cui si deduce che anche la moglie è un semplice bene di proprietà del marito.

MOSE’ – Sì, però avrete notato la finezza del Signore ?
LUMEN – Quale finezza ?

MOSE’ – Beh, che la moglie viene prima di tutti, quindi è più importanti degli schiavi, i quali a loro volta, come essere umani, sono più importanti degli animali, che, come esseri viventi, vengono prima delle altre cose.
LUMEN – Veramente una grande delicatezza. Era proprio un Signore, quel tipo.

MOSE’ – Ve ne siate accorto anche voi ?
LUMEN – Non proprio, ma lasciamo perdere.  Comunque, auguri per la vostra balbuzie e buon ritorno sul monte Sinai.

MOSE’ – G-grazie.