sabato 30 agosto 2014

Circolo vizioso

Diceva Albert Eistein che non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo fare le stesse cose.
Ma forse, oggi, per evitare il tracollo ambientale che ci minaccia, ci troviamo proprio imprigionati in questo paradosso: da un lato, per salvare l’ambiente, dovremmo ridurre drasticamente la complessità della nostra civiltà, ma, al tempo stesso, abbiamo bisogno di un flusso sempre maggiore di tecnologia e di informazioni per risolvere i problemi che ci angustiano. Come se ne esce ?
Ce ne parla l’ambientalista Jacopo Simonetta in questo post tratto da Effetto Risorse.
LUMEN


<< L’aumento vertiginoso dei volumi e della velocità di informazione pongono problemi crescenti di sintesi, di comprensione e di reazione anche a personale altamente qualificato.    Gran parte della classe dirigente (sia politica che economica) pare aver già raggiunto un livello di “overflow” oltre il quale prevalgono comportamenti istintuali e/o abituali sulla capacità di analisi razionale.  

Questo potrebbe spiegare almeno in parte perché, pur essendo perfettamente informati dei danni, dei rischi e delle principali cause della crisi attuale da almeno 40 anni, non abbiamo intrapreso alcuna azione efficace per evitarla.   Di fatto, il comportamento complessivo dell’umanità non si sta dimostrando più “intelligente” di quello di una muffa; è  come se la sommatoria di 7 miliardi di cervelli pensanti fosse tendente a zero.



Incremento della complessità.   Finora è stata una strategia vincente perché la disponibilità di risorse e la stabilità degli ecosistemi erano sufficienti a sostenere strutture progressivamente più costose in termini di risorse ed inquinamento.

Ma dal momento in cui la disponibilità di energia ha cominciato a declinare (perlomeno in termini qualitativi) la complessità ha cominciato a divenire sempre meno sostenibile.   D'altronde, la disarticolazione dei mega-sistemi in sub-sistemi  più semplici e meno interconnessi abbasserebbe drasticamente la capacità di fronteggiare problemi ordinari, come pure di estrarre ed utilizzare le risorse residue. 

Si pensi, ad esempio alle capacità terapeutiche dei grandi ospedali universitari rispetto a quella degli ospedalini di provincia.   Oppure si pensi al livello iperbolico di complessità organizzativa necessario per costruire e mantenere operativa una piattaforma petrolifera artica e confrontiamolo con il livello organizzativo ed economico che permise al “colonnello” Drake di trivellare i suoi pozzi. 

Inoltre, la complessità dei problemi da affrontare richiede oramai l’impiego di personale troppo specializzato per potersi efficacemente coordinare, col risultato che le risposte imbastite da governi e grandi organizzazioni in genere si stanno dimostrando frammentarie ed inefficaci,   spesso producendo danni imprevisti a latere di risultati deludenti.

Un effetto probabilmente dovuto anche al fatto che la dimensione dei sistemi sociali è divenuta tale da impedire alle persone di riconoscervisi e, dunque, di collaborare efficacemente alla sopravvivenza collettiva.  In altre parole, pare che i livelli di complessità stiano raggiungendo livelli ingestibili.



Costruzione sociale di modelli mentali di riferimento.    Il modello attualmente dominante e’ stato elaborato nel periodo in cui il tesoro nascosto delle energie fossili diventava disponibile e sembra incapace di adattarsi ad un contesto di progressiva carenza energetica, sia qualitativa che quantitativa.

Ma quando un modello ampiamente accettato e profondamente radicato viene posto sotto stress dalla forza di fatti che questo non è in grado di spiegare, si crea una situazione di grave sofferenza nei soggetti coinvolti.   Sofferenza tanto più forte quanto più brusco e profondo è il contrasto e, normalmente, la risposta alla sofferenza è la violenza.  

Ne sono testimonianza il fiorire di movimenti integralisti in più meno tutte le grandi religioni, come il risorgere di ideologie già costate milioni di morti che rappresentano altrettanti tentativi di ricreare dei modelli mentali ad un tempo esplicativi della realtà ed identitari del gruppo.  

Certo, è teoricamente possibile una revisione del modello o la sua sostituzione con uno più adeguato, ma questo tipo di processo richiede tempi relativamente lunghi che non abbiamo più a disposizione.    Di fatto, le classi dirigenti continuano a pensare sulla base di paradigmi elaborati in contesti completamente diversi dall'attuale e questo ne spiega il sistematico fallimento, anche a prescindere dai pur reali e diffusi fenomeni di stupidità, corruzione ed ignoranza.

E dunque?  Personalmente, ritengo che i livelli organizzativi superiori (organizzazioni internazionali, stati, grandi imprese, ecc.) non potranno materialmente elaborare alcuna strategia efficace e dunque si limiteranno a tamponare via via le falle maggiori, di solito aprendone altre.   Una cosa che potranno fare ancora per un periodo relativamente lungo (probabilmente un paio di decenni, forse di più) poiché la disponibilità di mezzi a loro disposizione è davvero molto elevata.  

Il problema è che così facendo posticiperanno sì eventi particolarmente dolorosi come le carestie, ma eroderanno nel contempo le riserve ancora presenti in termini di risorse, di resilienza degli ecosistemi, di capacità di adattamento delle popolazioni.

Al momento, alcuni tentativi di elaborare strategie alternative si vedono a livelli organizzativi del tipo di piccole cittadine di provincia o piccole imprese, ma sono molto pochi, mentre molto più numerosi sono gli esempi di micro-comunità auto selezionate, oppure di singoli individui o famiglie.   Il problema è che tanto più basso è il livello organizzativo, tanto minori sono i mezzi a disposizione e le possibilità operative.
 
Inoltre, occorre tener presente che ogni tentativo di modificare la strategia ad un determinato livello organizzativo, sottrae risorse ai livelli superiori, una cosa autenticamente, profondamente sovversiva. Per adesso questo tipo di iniziative non provoca alcuna particolare reazione, se non un passivo boicottaggio derivante dall'incompatibilità di queste strategie con il sistema di norme e consuetudini esistenti.   Questa comoda situazione potrebbe però cambiare se iniziative di questo tipo si moltiplicassero, oppure se il degenerare della situazione sociale portasse a governi più autoritari.  

Già in molti paesi del mondo le possibilità di scelta dei cittadini sono fortemente limitate non solo dai paradigmi mentali comuni e dalla propaganda, ma anche da apparati repressivi molto efficaci.   Ed anche nei paesi di tradizione più liberale, esigenze di ordine pubblico e fiscale stanno portando alla creazione di sistemi di spionaggio e controllo della popolazione assolutamente capillari.
Se ne potrebbe trarre la facile conclusione che un Fato funesto attende la nostra specie e, probabilmente, l’intero pianeta. Effettivamente, in una prospettiva plurisecolare, questa è una possibilità concreta, ma assolutamente non una certezza.

A conclusione del suo ultimo (e più amaro) libro, “Il declino dell’uomo”, Konrad Lorenz illustra come il comportamento dell’uomo contemporaneo continui ad essere condizionato da paradigmi istintuali che per almeno 100.000 anni hanno fatto di noi la specie vincente in assoluto.  
Questo li ha radicati profondamente nella nostra mente e, probabilmente, anche nei nostri geni, cosicché non riusciamo a liberarcene, malgrado nel contesto odierno siano diventati, a tutti gli effetti, degli istinti suicidi.

Conclude, tuttavia, dicendo che una speranza comunque c'è e e risiede nel fatto che la caratteristica principale dei sistemi viventi rimane l’imprevedibilità.   E le società umane sono sistemi viventi estremamente complessi, all'interno delle quali evolvono contemporaneamente numerose tendenze diverse, talvolta contrastanti.  

In pratica, se il destino della società industriale globalizzata appare effettivamente segnato per motivi geologici, termodinamici ed ecologici, il futuro delle società che si formeranno dalla sua disintegrazione rimane del tutto imperscrutabile.  
Curioso che dopo tanti sforzi per dominare e controllare  completamente la Natura, ci troviamo a riporre ogni nostra speranza nel fatto che non ci siamo riusciti.    >>

JACOPO SIMONETTA

sabato 23 agosto 2014

Money, money

Sino a qualche anno fa, solo l'economista "eretico" Alberto Bagnai, in quasi totale solitudine, aveva il coraggio di tuonare contro la follia dell'Euro.
Oggi che la situazione economica dell'Italia, e dell'Europa nel suo complesso, si è talmente deteriorata da diventare insostenibile, le voci critiche si stanno (per fortuna) diffondendo.
Quelle che seguono sono le più recenti considerazioni sull'argomento, semplici, chiare ed ineccepibili, dello storico e politologo Aldo Giannuli (tratte dal suo sito).
LUMEN


<< Renzi pensava di affascinare l’Europa con la sua riforma del Senato: non se l’è bevuta nessuno. All’ “Europa” del Senato non gliene può fregare di meno, invece interessa la precarizzazione totale del lavoro in Italia, arraffare quel po’ che ancora ha un valore (Eni, Cdp, Telecom, forse qualche pezzetto di Finmeccanica) e che gli italiani si spremano sino all’ultima goccia di sangue, diano fondo ai risparmi e si vendano casa per pagare gli interessi sul debito pubblico e, se possibile, ne restituiscano una parte attraverso il fiscal compact. Il resto sono solo chiacchiere.

Il punto centrale è la situazione insostenibile del debito italiano, che si è mantenuto in bilico per questi due anni di bonaccia dei mercati finanziari, ma ora la tregua sta finendo ed i conti li ha fatti Zingales (...) : “Con un tasso di interesse reale al 3,6% ed un tasso di crescita allo 0,3%, abbiamo bisogno di un avanzo primario del 4,5% solo per non far crescere il rapporto debito Pil. Oggi il surplus primario è solo al 2,6%. Questi semplici calcoli ci dicono non solo che non saremo mai in grado di soddisfare il fiscal compact, ma anche che la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile a meno di una significativa ripresa dell’inflazione”.

E, infatti, l’inflazione è sempre stata il maggiore alleato dei paesi debitori, ma questo presuppone la sovranità monetaria del debitore, cosa che l’Euro ci ha tolto. Il problema è che, mentre gli italiani hanno capitalizzato i loro risparmi in beni reali (essenzialmente immobili), i tedeschi li hanno impiegati per l’acquisto di titoli finanziari prevalentemente in Euro. Per cui, un’inflazione al 3% sarebbe una grande boccata di ossigeno per i paesi indebitati come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma, alle orecchie dei tedeschi, suonerebbe come una tassa patrimoniale di pari importo sui titoli. E siccome la moneta comune non è mai la “moneta di tutti”, ma sempre e solo del più forte, questo non si può fare.

Per i tedeschi la soluzione sta nella spoliazione dei paesi debitori, del loro patrimonio pubblico (aziende, immobili, riserva aurea, Cdp ecc.) e di quello privato (risparmi, proprietà immobiliari e, fosse per loro, anche vendita dei figli al mercato degli schiavi). Per fare questo, occorre azionare con la massima decisione la leva fiscale (ovviamente al rialzo) e svendere subito il patrimonio pubblico, entrambe cose che Monti aveva iniziato a fare con grande sollievo della platea “europea” (e sapete cosa intendo per “Europa”).

Ovviamente, dopo una cura del genere un paese entra in una fase di estrema decadenza economica per interi decenni, ma questo non interessa all’”Europa”. Per i tedeschi, i partner europei sono solo sgabelli su cui arrampicarsi per reggere la sfida della globalizzazione.

Renzi non sta dando le risposte attese e si sta limitando a giocare al “piccolo leader”, cosa sommamente irritante. Per la verità, l’“Europa” non ha soluzioni politiche di ricambio: la destra berlusconiana l’ha già cacciata una volta ed è decotta, il centro non esiste e nel Pd non c’è nessuno che possa dare il cambio al fiorentino. Ed allora che si fa? Si commissaria l’Italia. Si fa governare il paese dalla troika (Ue-Fmi-Commissione Europea).

Ma, mi si dirà, la troika interviene solo su richiesta dei paesi che sono a rischio default. Certo, ma dove è il problema? L’Italia richiederà l’intervento della Troika. Non vuole farlo? Allora si procederà con un nuovo “assedio dello spread”: quando, come nel novembre 2011 (quando c’era da cacciare Berlusconi) lo spread risalirà oltre i 500-600 punti, gli italiani, soprattutto grazie al loro ineffabile Capo dello Stato, faranno quello che devono fare e si troverà il Monti di turno che faccia il lacchè della troika. (...)

E Renzi cosa può fare? Il “bersagliere del nulla” ha solo due scelte davanti: o fa quello che la BCE gli dice, alla lettera e senza capricci, oppure fa saltare il tavolo. Cosa intendo per “far saltare il tavolo”? Giocare la carta del “ricatto del debitore”: “io vado in default, ma dietro di me se ne vengono molti altri, comprese le banche tedesche: poi l’Euro salta e siamo tutti seduti per terra; oppure ristrutturiamo il debito senza ricatti, iniziamo a negoziare una uscita dall’Euro, rivediamo tutti i patti.”

La forza negoziale dell’Italia sta proprio nel fatto che è un grande debitore con i suoi oltre 2.000 miliardi di debito. La Ue e l’Euro potrebbero resistere agevolmente ad un default greco pari a 300 miliardi e forse potrebbe incassare anche un tracollo portoghese, ma un colpo da 2.000 miliardi è decisamente troppo. Come ci ha insegnato un grande finanziere, un piccolo debito è un problema del debitore, ma un grande debito è un problema del creditore.

E la cosa potrebbe funzionare anche perché potrebbero accodarsi spagnoli, greci, portoghesi, mentre la parte loro potrebbero farla anche i variegatissimi movimenti “euroscettici”, che si sono appena affermati come forza politica di primo piano, nelle elezioni di due mesi fa. E dunque, la via sarebbe quella di sedersi tutti al tavolo e assumere il problema del debito come problema comune a debitori e creditori. Questo non è un tempo normale da di grande crisi che chiede scelte radicali, nel nostro caso o servi della troika o ribelli decisi a far saltare il tavolo. Tertium non datur.

Ma questo richiederebbe una intelligenza, una preparazione, un coraggio politico di cui non sospettiamo lontanamente Renzi. (...) La sua patetica impennata in difesa della sovranità nazionale (ridotta ad un miserrimo “E qui comando io!”) non vale una grinza sulla pelle di un rinoceronte, sarà travolto prima di aver finito di parlare. Ma quello che verrà dopo, sarà anche peggiore. Prepariamoci. >>

ALDO GIANNULI

sabato 16 agosto 2014

Il fascino dell'Ignoto

Uno dei libri più deliziosi di Achille Campanile è, a mio parere, “Vite degli Uomini illustri”, in cui il grande umorista romano rivisita, da par suo, alcuni dei grandi personaggi del passato e, soprattutto, i luoghi comuni che ne accompagnano la fama ed il ricordo.
Quello che segue è il racconto dedicato al grande pittore quattrocentesco Antonello da Messina. Buona lettura.
LUMEN


<< Di Antonello da Messina tutti conoscono il famoso "Ritratto d’Ignoto" e, se non temessi di ripetere una freddura che circola, evidentemente fin dai tempi di Antonello, direi che mai ignoto fu più noto di questo, il suo ritratto essendo riprodotto in tutti i manuali d’arte e in ogni libro dove si parli del pittore siciliano.
C’era da credere che egli fosse l’unico ignoto dell’arte Antonellesca. 
Viceversa, sfogliate l’Enciclopedia. Alla voce Antonello si trova la riproduzione del famoso quadro che occupa un’intiera pagina e reca la scritta: “Antonello da Messina: Ritratto d’Ignoto".
Voltate il foglio e trovate un’altra riproduzione di quadro che occupa un’altra pagina e reca la scritta: “Antonello da Messina: Ritratto d’Ignoto“.
Ora la cosa strana è che questo non è il medesimo ignoto.È un altro ignoto. Si tratta di due ignoti differenti.
Lì per lì si resta perplessi: Come va, vi chiedete, questa faccenda? Forse Antonello faceva soltanto ritratti agli ignoti?

Ebbene, ho indagato e ho scoperto che questa supposizione non è avventata. Come alcuni pittori sono specializzati in ritratti di dame aristocratiche, di artisti, guerrieri, prelati, o celebrità, così Antonello s’era specializzato in ritratti d’ignoti.
La cosa, in verità, come molte faccende dell’arte, nacque per caso. Antonello fece il ritratto d’un tale conosciutissimo.Ma disgraziatamente risultò che non somigliava affatto. 
Esposto il quadro, tutti si domandavano:
“Ma chi è? “
“È il tale. “
“Non è possibile. Non somiglia affatto.“
“ Ma allora, chi può essere? “
“ Vattelappesca.”
Il ritratto non somigliava a nessuno. Interrogato il pittore, questi si vergognò di confessare che non aveva azzeccato la somiglianza e disse:
“È un ignoto. Non mi chiedete di più “.
Un ignoto. La cosa circolò, ebbe fortuna.
Tutti dissero: “Ma guarda che bell’ignoto ha dipinto Antonello”.
Un successone.

Da quel giorno Antonello capì qual era la sua vocazione e si dedicò a effigiare ignoti. Tutti gli ignoti andavano da lui a farsi fare il ritratto.
“Scusate - chiedeva il pittore, quando si presentava un tale alla sua porta - voi chi siete ? “
E quegli: “ Non ve lo posso dire. Fatemi il ritratto“.
Antonello si metteva all’opera. Certe volte, tra una pennellata e l’altra, pensava: Chi sarà? L’altro, zitto.Poi se ne andava tutto intabarrato, desiderando conservare l’incognito.
Esposto il ritratto, la gente diceva: “È somigliantissimo “.
Ma somigliantissimo a chi? Nessuno avrebbe potuto dirlo...
Gli altri pittori crepavano dalla rabbia.
"Bella forza!“ - dicevano - “Anch’io saprei fare ritratti somigliantissimi d’ignoti.”...

Era l’uovo di Colombo. Ma prima di Antonello nessuno ci aveva pensato.
Intanto Antonello aspettava i clienti.
Arrivava un tale.
“Desidero mantenere l’incognito”: gli diceva, invece di presentarsi. E si metteva in posa.
I guai cominciavano al momento di pagare il ritratto.
Me l’ha da pagare, pensava Antonello, una volta partito il cliente a lavoro ultimato, ma dove lo pesco? Non sapeva nemmeno l’indirizzo.
 
La moglie aveva un diavolo per capello.
“Anche tu, “ - gli diceva - “ benedetto uomo: vai a specializzarti proprio in ritratti di ignoti !...”
Una volta si presentarono un vecchio signore ignoto e un giovinotto suo figlio a chiedere d’essere effigiati. Eseguiti i ritratti. Antonello scrisse, sotto quello del vecchio: Ritratto d’Ignoto; e sotto l’altro: Ritratto di figlio d’Ignoto.
Apriti cielo. Esposti i quadri, padre e figlio volevano linciare il pittore. La moglie del vecchio signore querelò Antonello per diffamazione. >>

ACHILLE CAMPANILE

sabato 9 agosto 2014

Numbers

Quella tra artisti e scienziati, tra cultura classica e cultura scientifica, è una diatriba che percorre, con alterne fortune e alterni risultati, tutta la storia della civiltà umana.
Piergiorgio Odifreddi, che della matematica ha fatto il centro della sua vita, non può che essere di parte, e propendere decisamente per la cultura scientifica.
Ma le sue considerazioni (tratte dal suo blog “Il non senso della Vita”), mi sembrano interessanti, e difficilmente contestabili. anche per chi si trovasse sulla sponda culturale opposta.
LUMEN


<< L’artista, il musicista e il poeta percepiscono le meraviglie del mondo attorno a sé, raffigurandole e trasfigurandole nelle loro opere.
Osservano i variopinti colori dei fiori nei prati, riproducendoli in tele realiste o impressioniste. Ascoltano i gorgheggianti canti degli uccelli, riverberandoli in composizioni pastorali. Guardano oltre una siepe, fingendosi sovrumani silenzi e profondissima quiete. Osservano la danza della graziosa e silenziosa Luna, domandandosi che ci fa in cielo.

I loro sensi raffinati e le loro sensibilità affinate li candidano ad essere l’avanguardia emotiva di tutti noi, più poveri di spirito, che li eleggiamo a interpreti spirituali dell’umanità. (…)
Ma rispetto all’artista, al musicista o al poeta, il matematico va oltre, e non altrove. E la sua visione del mondo non sottrae bellezza alla descrizione dell’umanista, ma gliene aggiunge.
Perché la bellezza c’è a tutti i livelli della Natura, dal microcosmo al macrocosmo: non solo al livello antropico, al quale siamo tutti abituati e allertati, ma che rimane marginale e secondario rispetto al tutto.

Ad esempio, quando il matematico osserva un fiore, dietro al numero dei suoi petali nota la successione di Fibonacci e la proporzione aurea alla quale essa tende. Dietro ai suoi colori, riconosce le lunghezze e le frequenze di velocissime onde luminose. (…)
E ancora, quando il matematico guarda agli andirivieni palesemente errabondi della Luna e dei pianeti, vi scorge l’effetto della regolarità nascosta di moti di cerchi su cerchi su cerchi.
E descrive la sovrapposizione di questi moti nello stesso modo in cui descrive la sovrapposizione delle armoniche dei suoni, scoprendo e confermando il potere unificatore del linguaggio astratto delle formule. (…)

Ma se la matematica costituisce uno strumento così versatile, fertile e indispensabile per capire il mondo naturale e umano, com’è che quasi tutti la odiano visceralmente, e si vantano di non averci mai capito niente?

Che gli artisti, i musicisti e i poeti si lasciano guidare più dalle viscere, che dalla testa?
I credenti si affidano più alla fede irrazionale, che al pensiero logico?
I filosofi seguono le chiacchere degli esistenzialisti, più che i ragionamenti dei razionalisti?
I politici incarnano l’arte del voltagabbana, e disdegnano la legge di non contraddizione?
I media rincorrono avidamente scrittori e artisti, anche da quattro soldi, ma evitano accuratamente gli scienziati, anche da Nobel?
E, amarus in fundo, gli studenti considerano la matematica la loro bestia nera e il loro incubo?

Una prima spiegazione, fisiologica, l’ha data Howard Gardner nei suoi studi sui vari tipi di intelligenza.
A un estremo, la prima a svilupparsi nel bambino è l’intelligenza musicale, fin dai primi anni di vita. All’altro estremo, l’intelligenza logico-matematica è l’ultima ad arrivare, con la pubertà e l’adolescenza.

Così, mentre si conoscono geni precocissimi come Mozart o Mendelssohn, che a quattro anni suonano e compongono, anche matematici precoci come Pascal o Gauss sono sbocciati solo tra i sedici e i diciott’anni.
Il che significa che la matematica richiede una maturità e uno sviluppo che non si hanno ancora alle elementari e alle medie, quando la si subisce come una perversa violenza e la si interiorizza come un indelebile trauma.

Una seconda spiegazione, psicologica, deriva dalla natura stessa di un gioco come la matematica, in cui non si può sgarrare, e tanto meno barare: basta lasciarsi scappare un segno sbagliato, o non chiudere una parentesi, per subire una débâcle.
Molto più facile abbassare il tiro, seguire le linee di minima resistenza e rivolgersi a giochi con regole meno vincolanti o, come nel romanticismo, addirittura inesistenti. E lasciar perdere una disciplina che costringe a estenuanti esercizi e sfibranti concentrazioni, incompatibili con la tempesta di “stacchi pubblicitari” a cui si viene diseducati fin da bambini.

Una terza spiegazione, sociologica, ha a che fare con il potere. La maggioranza dei ruoli dirigenziali, dai ministeri ai media, è distribuita per tradizione in accordo al motto di Croce: “comanda chi ha studiato greco e latino, e lavora chi conosce le materie utili”.
E non si può pretendere che gli umanisti aprano passivamente le porte al “nemico”, o evitino attivamente di denigrarlo, magari con la scusa che “così vuole la gente”: i due terzi della quale comunque non legge un libro all’anno, mentre il rimanente terzo si concentra sui romanzi.

Un’ultima spiegazione, pedagogica, ha a che fare con l’anacronismo della nostra scuola. Ministri e funzionari insensibili e inesperti, programmi e testi antiquati e aridi, esercizi sadici e noiosi inflitti con metodi di insegnamento antidiluviani, completano l’opera di allontanamento anche degli studenti meglio disposti.

Con queste premesse, non c’è da stupirsi che la matematica sia così poco apprezzata e capita: semmai, ci sarebbe da stupirsi del contrario. Peccato però che, in un mondo tecnologico, chi non la conosce finisca per rimanere un vero e proprio analfabeta.
Con gran cruccio di quei governi e di quelle società che prima fanno di tutto per bruciare la terra attorno alla matematica, e poi si preoccupano di esserci riusciti, domandandosi impotenti e tardivi come rimediare. >>

PIERGIORGIO ODIFREDDI

sabato 2 agosto 2014

Il Secondo Principio – 3

Concludo la mia breve citazione dal libro “Entropia” di Jeremy Rifkin, con un ulteriore  capitolo dedicato al particolare rapporto tra il secondo principio della termodinamica e gli esseri viventi.
Si è pensato, per un certo periodo, che il mondo della biologia costituisse una sorta di eccezione alla tendenza entropica della materia, ma si tratta solo di una anomalia apparente, che non intacca la validità generale della legge. Insomma, l’entropia regna sovrana su tutto l’universo, e nemmeno la vita vi può sfuggire.
LUMEN


<< Se l’entropia dell’universo è in costante aumento, come si spiega il processo della vita ?
Certamente gli esseri viventi mostrano una grande tendenza all’ordine e la stessa evoluzione sembra rappresentare il continuo aggiungersi di ordine su ordine a partire da uno stato di disordine.
Nessuno potrebbe negare che un bambino che cresce e si sviluppa accumula su di sé i risultati di una grande quantità di energia. Ogni volta che ci fermiamo ad ammirare una pianta o un animale, restiamo stupefatti a considerare quanto siano ben organizzati tutti i miliardi di molecole che li costituiscono.

Sembrerebbe proprio che la vita debba violare il secondo principio, vero ? E invece non è così !
Per molto tempo gli scienziati hanno fatto confusione su questo punto ma oggi riconoscono che anche la vita, come ogni altra cosa, non può sfuggire alla ferrea legge dell’entropia. (…)
Gli esseri viventi riescono a muoversi in direzione opposta a quella del processo entropico perché assorbono energia libera dall’ambiente circostante. In definitiva la sorgente di energia libera è poi sempre il Sole.

La vita di tutti, piante e animali, dipende dal Sole per la sua continuità, sia direttamente per le piante che attuano la fotosintesi, sia indirettamente quando gli animali si nutrono di piante o di altri animali.
Ogni essere vivente, per dirla con le parole del premio Nobel per la fisica Erwin Schròdinger, sopravvive «traendo dal suo. ambiente continuamente entropia negativa. L’organismo si alimenta di entropia negativa. Un organismo si mantiene stazionario nell’assorbire continuamente ordine dall’ambiente».

In altri termini possiamo dire che anche tenendo conto di tutti gli organismi viventi la tendenza naturale è quella di muoversi verso l’equilibrio, noi esseri umani, per esempio, dissipiamo continuamente energia ogni volta che alziamo un dito o formuliamo un pensiero.
Per evitare di dissipare tutta l’energia disponibile fino a uno stato di equilibrio e di morte abbiamo bisogno di un flusso costante di energia libera (entropia negativa) dal nostro ambiente che è relativamente più ampio.
Chi non ne è convinto probabilmente non ha mai visto un cadavere: poche ore dopo la morte il corpo inizia a decomporsi disfacendosi poi in una massa totalmente indifferenziata.

In un primo momento gli scienziati ebbero qualche difficoltà a formulare un modello in cui i sistemi viventi si configurassero nel secondo principio, perché la termodinamica degli equilibri è relativa a sistemi chiusi, in cui non si ha scambio di materia, ma eventualmente solo di energia con l’esterno.
I sistemi viventi sono sistemi aperti che scambiano materia ed energia con l’esterno e non possono mai trovarsi in una situazione di equilibrio mentre sono ancora in vita, perché l’equilibrio significa morte, ed è per questa ragione che gli esseri viventi cercano di mantenersi ben lontani dall’equilibrio e continuano a nutrirsi di tutte le forme di energia disponibile che trovano intorno realizzando una situazione che si chiama «stato stazionario».

Quando materia ed energia cessano di fluire, l’organismo vivente abbandona lo stato stazionario e si avvia verso l’equilibrio e la morte, negli organismi viventi è soprattutto il flusso di energia che conta non il livello entropico.
La scienza che studia questi fenomeni si chiama termodinamica del non-equilibrio e, per quanto i sistemi di non-equilibrio non si lascino spiegare con le stesse leggi dei sistemi in equilibrio, sottostanno tuttavia all’imperativo generale del secondo principio, come vedremo in seguito.

«Ogni oggetto vivente», disse Bertrand Russeil, «è una specie di imperialista che cerca di trasformare quanta più massa può del suo ambiente, nel suo essere fisico e nella propria discendenza».
In questa ricerca di risorse, ogni vivente sul pianeta dissipa l’energia che fluisce attraverso il suo essere, rendendola, almeno in parte, non più utilizzabile, ed è ugualmente vero che anche la più piccola pianta mantiene la sua struttura ben ordinata a patto di creare grande disordine nel resto dell’ambiente.
La pianta vive tramite la fotosintesi e assorbe entropia negativa dai raggi del sole. In questo processo solo una piccola frazione dell’energia solare viene catturata e usata, il resto viene dissipato e, se lo si paragona alla piccola diminuzione di entropia localizzata nella pianta stessa, sembra uno spreco enorme.

L’aumento di entropia si può illustrare in modo ancora più schematico con ciò che avviene nelle normali catene alimentari.
Il chimico G. Tyler Miller provò a delineare una semplicissima catena alimentare (…) [composta] di erba, cavallette, rane, trote ed esseri umani. (…) 
Nel divorare una preda, dice Miller, «circa l’80-90% dell’energia viene dispersa nell’ambiente come calore», soltanto un 10-20% rimane nei tessuti del predatore per essere trasferita allo stadio successivo della catena alimentare. (…)

«Servono trecento trote a mantenere un uomo per un anno, le trote a loro volta consumano 90.000 rane che mangiano 27 milioni di cavallette che vivono di 1000 tonnellate d’erba.» (…)
Possono sussistere ancora dubbi sul fatto che ogni essere vivente mantiene il suo stato ordinato a spese di un maggior disordine (ovvero energia dissipata) nell’ambiente circostante ?

C’è un continuo passaggio di energia attraverso ogni essere vivente, energia che entra nel sistema a un livello più alto uscendone poi in uno stato più degradato, e gli organismi sopravvivono perché riescono ad accumulare entropia negativa dall’ambiente.
La lotta per l’esistenza dipende da quanto ogni organismo è ben attrezzato per catturare l’energia disponibile.

Il biologo Alfred Lotka (…) affermò che ogni specie può essere vista come un diverso tipo di «convertitore» che cattura e utilizza l’energia disponibile e ogni organismo convertitore è attrezzato con una serie di strumenti che impiega per succhiare energia dal suo ambiente (…) e che la selezione naturale favorisce gli organismi «capaci di aumentare la massa del sistema vivente, la velocità di ricambio di materia e il flusso di energia fino a quando vi sarà un residuo di materia inutilizzata e di energia ancora disponibile». (…)

[Questo avviene] nei primi stadi di sviluppo di un ecosistema, quando c’è ancora un eccesso di energia disponibile, [poi] le diverse specie, ognuna delle quali tende a occupare un particolare habitat, devono specializzarsi nell’utilizzo delle capacità residue dell’ambiente usando meno energia con maggiore efficienza.
I primi stadi di sviluppo, quando l’energia utilizzata è la massima possibile, vengono chiamati fasi di colonizzazione, mentre gli ultimi stadi con energie utilizzate al minimo sono detti fasi di climax.

L’Homo sapiens nel suo complesso dovrebbe avviarsi da una fase di colonizzazione a una fase di climax.
Gli esseri umani, specialmente nelle società altamente industrializzate, continuano ad aumentare la quantità di energia utilizzata sia in ambito personale sia in ambito sociale, ma la crisi dell’uomo d’oggi è una crisi di transizione: nelle prossime età l’uomo si sarà stabilizzato nella sua fase di climax e darà alle sue attività un ordine tale da minimizzare i flussi di energia nei processi umani e sociali.
Se non lo farà seguirà probabilmente il destino di altre specie che non seppero affrontare la transizione nei tempi passati. L’epopea della vita è cosparsa di specie estinte, non ci vuole nulla ad aggiungere un nome alla lunga lista.

Tutti noi siamo sempre stati abituati a parlare di evoluzione biologica in termini di progresso. Oggi ci accorgiamo che ogni specie più alta nella scala evolutiva trasforma una maggior quantità di energia (…) e che, nel processo evolutivo, ogni specie che viene dopo è più complessa della precedente e meglio attrezzata per trasformare l’energia disponibile.
Quello che è veramente difficile da accettare è che quanto più avanti si va nella catena dell’evoluzione, più abbondanti diventano i flussi energetici e maggiore il disordine che si crea nell’ambiente considerato nel suo insieme. In queste condizioni la legge dell’entropia dice che l’evoluzione dissipa l’energia disponibile per la vita su questo pianeta.

Il nostro concetto di evoluzione è esattamente l’opposto. Pensiamo ancora che l’evoluzione, quasi per magia, crei nel suo complesso maggior valore e ordine sulla Terra.
Oggi che l’ambiente della nostra vita sta diventando così degradato e disordinato che lo si vede anche a occhio nudo, per la prima volta cominciamo a ripensare i nostri concetti di evoluzione, progresso e creazione di beni materiali. (…)
Non vi è modo di aggirare il problema: evoluzione significa creare isole di ordine sempre più grandi a spese di mari di disordine anch’essi sempre più grandi.

Nessun biologo o fisico può negare questa verità, ma chi se la sentirebbe di entrare in un’aula universitaria o in una pubblica assemblea e ammettere che le cose stanno così ?
Se questa interpretazione dell’evoluzione appare troppo deprimente, è solo perché siamo ancora così legati al paradigma vigente per il mondo, che tutti gli altri modi di organizzare il pensiero ci sembrano inaccettabili. Fino a quando non avremo riconosciuto e accettato che il secondo principio è alla base sia della vita sia dell’evoluzione, non saremo in grado di fare il passaggio dall’attuale fase di colonizzazione a quella di climax dell’esistenza.  >>

JEREMY RIFKIN