mercoledì 29 giugno 2016

Pensierini – XXIV

SENSI DI COLPA - 1
Qualcuno, a proposito del dramma migratorio, ha affermato che noi italiani - ma si potrebbe dire noi occidentali - non avremmo il diritto di opporci, in quanto già godiamo di un “premium di cittadinanza” immeritato (dato che solo casualmente siamo cittadini italiani) e quindi oggettivamente ingiusto verso gli altri cittadini del mondo, meno fortunati di noi, ma senza colpa.
Il ragionamento non mi convince.
La sorte domina incontrastata su tutti gli esseri viventi e nessuno è quello che è, nel bene e nel male, per merito o colpa sua, ma solo per le circostanze casuali della vita, dal suo DNA in poi.
C’è chi è bello e chi è meno bello, chi è atletico e chi ha un fisico gracile, chi è nato in una famiglia ricca e chi in una povera, chi ha certe doti intellettuali e chi altre, chi ha un carattere socievole e chi no.
Cosa vogliamo fare ? Far sentire in colpa tutti coloro che hanno avuto qualche buona sorte dalla vita ? Sarebbe ridicolo.
LUMEN


SENSI DI COLPA – 2
Quindi io – che sono italiano e, per ora, di buona sorte - non mi sento assolutamente in colpa, né tenuto a fare nessuna compensazione con chicchessia.
Mi limito, molto semplicemente, a rispettare 3 divieti, minimali ma fondamentali, che mi sembrano dettati dal semplice buon senso:
- Non inorgoglirmi per la mia buona sorte o le mie presunte qualità
- Non umiliare o anche solo deridere chi è stato più sfortunato di me.
- Non fare del male a nessuno (salva la legittima difesa).
Sembra un discorso egoista ?
Può darsi, ma sono principi che chiunque può seguire senza troppo sforzo: non è necessario essere un santo per riuscirci.
E se tutti seguissero questi tre semplici principi, il mondo non sarebbe già un luogo molto migliore di quello attuale ?
LUMEN


CULTURA SCOLASTICA
Non voglio dire che le nozioni che ho imparato a scuola siano state inutili: sarebbe ingiusto.
Mi servono moltissimo per sfoggiare un po’ di cultura generale e per risolvere i giochi della settimana enigmistica.
Ma non mi hanno mai insegnato come funziona davvero il mondo. Quello me lo sono dovuto imparare dopo, per conto mio.
LUMEN


CONTRATTI DI LAVORO
E’ giusto, o comunque accettabile, che, a fianco del lavoro a tempo indeterminato esista anche quello a tempo determinato ?
Io penso di sì, perché ci sono situazioni in cui è senz’altro opportuno, nell’interesse di tutti, lasciare all’imprenditore una certa libertà di programmazione.
Ma come fare per evitare gli eccessi e le furberie ?
Non è difficile: basta stabilire per legge che – ceteris paribus - il lavoro a tempo determinato sia sempre PIU’ costoso di quello a tempo indeterminato, anche solo a livello di imposte o contributi.
Così l’imprenditore sceglierà di utilizzare il ‘tempo determinato’ solo quando ne ha veramente bisogno, senza approfittarsene.
Oggi invece, in Italia, il lavoro precario è diventato un dramma, in quanto non solo è meno tutelato, ma è anche meno costoso dell’altro.
Ma si può stabilire un principio più controproducente di questo ?
LUMEN


FIGLI E DOVERI
Ma fino a quando durano, oggi, le cure parentali ? La risposta di Giianni Pardo fa un po' impressione.
<< Praticamente - dice Pardo - è a tempo indeterminato che i genitori devono scontare l’errore di avere messo al mondo dei figli. Se cercano di rifiutarsi, questi, anche se hanno ventotto o trent’anni, si rivolgono al giudice, vincendo spesso la causa. Il risultato è che avere figli è divenuto molto poco conveniente e molta gente, razionalmente, evita di averne. Abbiamo concesso ai nuovi venuti tanti vantaggi, che alla fine abbiamo avuto l’esagerazione dei doveri in confronto ai piaceri. >> 
Per fortuna, ci sono gli istinti naturali a supportare i 'poveri' genitori.
LUMEN

mercoledì 22 giugno 2016

Il picco della guerra

Chi frequenta questo blog sa bene che non esiste solo il (ben noto) “picco del petrolio”, ma anche il picco delle materie prime, il picco della produzione agricola, il picco delle rese ittiche, ecc. ecc. Qualcuno arriva addirittura a parlare, con termine omnicomprensivo, di un “picco di tutto”.
E la guerra ? E’ possibile che anche la guerra risenta della crisi globale e che quindi esista anche un “picco della guerra moderna” ?
Ce ne parla Jacopo Simonetta, di cui riporto alcune interessanti considerazioni sull’argomento (da Effetto Risorse). 
LUMEN


<< L’umanità intera, e dunque tutti i paesi coinvolti nei [vari] conflitti, hanno iniziato la fase di impatto contro i Limiti della Crescita. Ad esempio, senza essere un esperto di geopolitica, trovo assurdo parlare di una possibile nuova Guerra Fredda, senza tener conto di fatti come il picco petrolifero.

Dunque, anziché sostenere le ragioni di questo o quel contendente, vorrei qui tentare di avviare una discussione circa la situazione a partire dai tre punti seguenti:

1 – Il sistema socio-economico globale è entrato in una crisi irreversibile che porterà al collasso della civiltà industriale e ad un brutale ridimensionamento della popolazione umana mondiale. Probabilmente la fase acuta del collasso comincerà fra 10-20 anni al massimo, ma non colpirà tutti i paesi allo stesso modo e nello stesso momento.

Un conflitto di ampia portata accelererebbe necessariamente il processo, non solo per il numero di morti nei bombardamenti, ma soprattutto per la distruzione di risorse ed infrastrutture che ben difficilmente potrebbero essere riparate o ricostruite. In altre parole, i conflitti attuali e futuri in un modo o nell'altro finiranno, ma la ricostruzione sarà impossibile o molto parziale tanto per i vinti che per i vincitori.

2 – L’economia attuale è totalmente interconnessa. Abbiamo visto come una crisi partita dagli stati Uniti abbia travolto l’Europa e quindi la Russia, poi il Brasile e quindi il resto del mondo, fino a raggiungere la Cina. Questo significa che il collasso di uno degli attori principali, trascinerebbe seco anche tutti gli altri. Una situazione completamente opposta a quella che si verificava durante la guerra fredda.

3 – I metodi di guerra attualmente utilizzati dalle potenze di primo e secondo livello (quelli che possono usare aviazione, artiglieria e mezzi corazzati) sono quanto di più dissipativo sia mai uscito dalle officine umane. Il loro impiego comporta una distruzione di risorse, capitale reale ed informazione spropositatamente alto rispetto alla distruzione di persone.

Questo significa che, terminato il conflitto, la popolazione superstite si troverà in condizioni ancora peggiori di quelle che avevano scatenato la violenza. Con l’alternativa di continuare a combattere con mezzi progressivamente più semplici, o attendere che la miseria ristabilisca l’equilibrio fra popolazione e risorse. (…)

Molti vagheggiano un ritorno alla Guerra Fredda, che, a quanto pare, ha molti nostalgici su entrambi i fronti della barricata. Ma i tempi sono cambiati e con essi le prospettive. Per capire quanto, suggerisco di considerare che, piaccia o non piaccia, il peso geo-politico di un paese è molto approssimativamente correlato con il suo potenziale industriale-militare. Quindi, sempre molto approssimativamente, con la quantità di energia che riesce ad utilizzare e dissipare. (…)

Nel 1970 la dissipazione di energia in URSS era poco superiore a quella EU. Circa la metà della somma USA+EU, ma con un potenziale militare pari (o forse superiore) per la molto maggiore percentuale di risorse che i sovietici devolvevano alle forze armate. In ogni caso, la Cina era un nanerottolo termodinamico, di taglia addirittura inferiore a quella del Giappone e della sola Germania. (…)

Il nanerottolo oggi è la Russia, mentre USA ed EU sono entrambe state surclassate dalla Cina, che non nasconde più le sue ambizioni imperiali su buona parte dell’Asia e dell’Africa. Si noti anche che nel 1970 la maggior parte dei “magnifici 7” erano europei, mentre oggi sono asiatici e che il cosiddetto club dei “BRICS” è composto da una super potenza (la Cina) e da quattro "mezze cartucce” che, tutte insieme, non arrivano alla metà del “dragone”.

È ovvio che un eventuale sodalizio fra loro sarebbe, di fatto, il riconoscimento di un’egemonia cinese sugli altri stati, analogamente a quanto è avvenuto fra gli USA ed gli altri paesi occidentali.

Tornando ad un’ipotetica “guerra fredda 2”, potrebbe accadere se il mondo tornasse a dividersi in due blocchi di potenza industriale e militare circa equivalenti, cosicché nessuno dei due osi attaccare l’altro direttamente. Allo stato attuale delle cose sembrerebbe possibile solamente se le due parti fossero USA +EU da un lato e Cina dall'altro. Un “grande gioco” in cui la Russia avrebbe delle buone opportunità facendo del cerchio-bottismo fra i due schieramenti.

Per quanto industrialmente [sia] drasticamente ridimensionata, la Russia è infatti ancora una potenza militare di primo piano e dispone di risorse rilevanti. Entrambi gli ipotetici schieramenti avrebbero quindi interesse a coltivarne l’”amicizia”. Viceversa, se la scelta fosse quella di attaccarsi stabilmente al carretto cinese, credo che la Russia finirebbe con il diventare, in buona sostanza, una colonia di Pechino. Una specie di contrappasso storico, a 100 anni circa di distanza.

Ma non credo che questo sia uno scenario realistico, perlomeno non nell'immediato futuro. Semplicemente perché la reciproca dipendenza economica tra tutte le parti in causa è troppo elevata affinché uno dei giocatori si possa permettere di buttare all'aria le carte. Insomma, fra i tanti svantaggi della globalizzazione, ci sarebbe anche un vantaggio importante: il fatto di rendere praticamente impossibile una guerra mondiale.

Questo finché rimane in piedi il "Business As Usual". Non appena le curve dell’economia e della disponibilità energetica globali saranno abbassate in misura sufficiente, il sistema comincerà a disgregarsi, presumibilmente a partire dei livelli di complessità maggiori, per riorganizzarsi in sistemi progressivamente più piccoli e meno dissipativi.

Il livello maggiore in assoluto è ovviamente quello globale, che già mostra segni evidenti di senescenza. Subito dopo vengono i mega-stati o meta-stati: USA, Russia, EU, India e Cina. Di questi, la Russia ha già subito un primo round di disgregazione e sembra quasi matura per un secondo. India, Europa ed USA si contendono il posto di prossimo candidato ad un analogo destino, forse anche prima della Russia.

Anche la Cina non è poi quel monolite assoluto che cerca di sembrare, ma non c’è dubbio che la triade partito-esercito-polizia abbia per ora la situazione in pugno. Finché questa triade non vacillerà, la Cina non si sfascerà. Sembra quindi che un periodo di egemonia cinese su buona parte del mondo sia oramai ineluttabile. Salvo che gli ci vorrebbero almeno altri 20 anni per arrivarci e probabilmente non ce li ha.

Personalmente, vedo infatti due grossi ostacoli verso l’affermazione di un “Impero Giallo Mondiale”.

Il primo è che in un mondo in cui la crescita economica è oramai da tempo un gioco a somma negativa, la crescita della Cina può avvenire solamente a spese degli altri paesi del mondo, soprattutto di USA e UE (esattamente come è avvenuto nei 20 anni scorsi). Ma abbiamo visto che il deterioramento delle economie occidentali danneggia anche quella cinese. Dunque se la Cina vince troppo, rischia di andare a rotoli.

La seconda è che, se davvero l’evoluzione del sistema globale procederà come previsto, il collasso avverrà prima che la Cina abbia potuto consolidare il suo impero. O, perlomeno, questo sarà di assai breve durata.

L’aspetto negativo è che, collassando il sistema globale, tutti i giocatori si troveranno ridimensionati, ma anche meno interdipendenti. Di conseguenza, le probabilità di un conflitto ad elevata intensità aumenteranno considerevolmente. Anche perché attaccare i paesi vicini potrebbe diventare la disperata alternativa allo scoppio di guerre civili. (…)

Trovare un ragionevole compromesso e saldare una coalizione anti-cinese sarebbe, a mio avviso, l’unica ipotesi ragionevole tanto per la Russia, quanto per EU ed USA. Questo non impedirebbe la loro disintegrazione, ma potrebbe permettergli di guadagnare tempo e di limitare i danni. >>

JACOPO SIMONETTA

mercoledì 15 giugno 2016

Ritratto di signora in nero

Il sottile intreccio tra avanguardie artistiche, millenarismo e angoscia di morte nell’analisi di Luigi De Marchi. LUMEN

 
<< La presenza della morte nell'arte è stata sempre incombente. E non solo perché dalla civiltà egizia a quella etrusca a quella cristiana, l'arte religiosa ha molto spesso ruotato attorno al tema della morte, ma anche perché l'opera artistica in se stessa appare non di rado come uno sforzo dell'artista per continuare a vivere dopo la morte.

Otto Rank giunse anzi a sostenere (forse con troppo sbrigativa sicurezza) che la principale motivazione dell'artista nella sua creatività sta nella “spinta all'immortalità”. In questo senso la creazione culturale sembra collegarsi alla procreazione biologica: l'organismo produce, emette qualcosa, appunto una sua creatura, destinata a sopravvivergli.

Qui vorrei comunque delimitare la mia analisi ad una delle svolte cruciali della cultura occidentale: (…) quella contemporanea, iniziatasi con le avanguardie artistiche del Novecento. (…)

La crisi nata con l'Illuminismo e poi sviluppatasi con il pensiero scientifico e filosofico contemporaneo (…) ha scalzato alle radici il pensiero religioso tradizionale e ha riportato l'uomo dinnanzi all'angoscia esistenziale esorcizzata per millenni attraverso i miti e i riti religiosi. E al tempo stesso il facile ottimismo del positivismo [è stato] ben lungi dal fornire un'alternativa alle vecchie certezze. (…)

E’ su questo sfondo culturale che nacquero le avanguardie artistiche del Novecento: dall'espressionismo al cubismo, dal futurismo al costruttivismo, dal dadaismo all'astrattismo, dal surrealismo alla rivoluzione dodecafonica di Schònberg.

Di questi movimenti è stato spesso sottolineato, dai protagonisti ancor prima che dagli storici, il legame con i movimenti rivoluzionari di destra o di sinistra. Qui vorrei piuttosto sottolineare, tuttavia, che quel loro legame con le rivoluzioni politiche fu una fratellanza ideologica che nasceva da una comune discendenza o paternità psicologica: appunto dall’angoscia esistenziale connessa al crollo delle difese religiose.

Il riflusso restauratore seguito alle rivoluzioni del 1848 non aveva spento in molti artisti la speranza del Millennio rivoluzionario, ma l'aveva caricata di una rabbia distruttiva e vendicatrice anche più forte: “Vi sono - scriveva Rimbaud - distruzioni necessarie”. Questa disperata protesta contro una società, quella borghese, colpevole di opporsi alla palingenesi rivoluzionaria esplode esplicitamente in Van Gogh, che può considerarsi uno degli anticipatori dell'espressionismo.

Ma con l'avanzare del riflusso conservatore non tarda ad affiorare una nota di angoscia esistenziale sempre più chiara. E’ un fenomeno molto significativo perché ci svela ancora una volta quanta parte abbia il mito rivoluzionario, moderno erede del mito religioso, nell’esorcismo dell'angoscia esistenziale. (…)

[Mentre] in James Ensor l'angoscia riesce anche a ridere di se stessa, nel grottesco, in Edvard Munch essa domina incontrastata la tela. A partire dalla “Notte” (1890) inizia una sequenza di tele trasudanti angoscia e terrore: angoscia della morte che egli conobbe da vicino nella malattia e nell'agonia dei familiari, ma anche orrore della natura, che di quell'angoscia è spesso figlia e che si esprime magistralmente ne “L'urlo” (1893), forse il più famoso tra i quadri di Munch: “Sento il grido della natura”, scriverà il pittore commentando quella sua tela disperata. (…)

Persino l'arte negra, “scoperta” all'inizio del secolo, apparve agli espressionisti, con le sue maschere scure e sinistre, carica di un’ancestrale angoscia di morte e di un profondo terrore della natura. (…)

L'espressionismo accentua ulteriormente in Germania, ove soprattutto fiorì, il suo carattere angoscioso. Emii Nolde, uno dei padri fondatori dell'espressionismo tedesco, dipinge i suoi paesaggi naturali con macchie di colore ove vuole addensare, dice, “le grida di paura e di dolore degli animali” (…) L'orrore di Nolde per la “natura matrigna” si trasforma [poi], in Franz Marc e Vasilij Kandinskij, in un vero e proprio rifiuto estetico della natura che apre la via all'astrattismo. (…)

Emerge con chiarezza, insomma, che la presa di coscienza del Weltschmerz (cioè del dolore del mondo e della natura) sta alla base dell'astrattismo e della sua fuga nella purezza e serenità della forma astratta. (…)

Anche l'astrattismo di Mondrian, apparentemente tanto diverso, col suo freddo scientismo, da quello apertamente religioso di un Kandinskij, rivela la sua matrice millenarista quando profetizza che nella città futura, costruita secondo i dettami delle concezioni neoplastiche vagheggiate da Mondrian stesso, l'uomo “sarà felice in quell'Eden che egli stesso avrà creato”.

Con il trauma della disfatta (della prima guerra mondiale) e della tremenda crisi economica seguita alla sconfitta militare, molti artisti tedeschi (e non solo tedeschi) tornano a sognare la rivoluzione e sviluppano un vero e proprio furore distruttivo contro il vecchio mondo: borghesi, militari, politicanti.

All'angoscia esistenziale subentra dunque una nuova ondata di rabbia e di impegno sociale: è questo, tra parentesi, un processo pendolare che si ripete continuamente nella storia e che, forse. sta ripetendosi anche oggi. Si ha la sensazione che all'angoscia esistenziale l'essere umano abbia saputo dare, finora, sempre e solo due elaborazioni: una depressiva, autoaccusatoria e autopunitiva, che vede nell'uomo peccatore la fonte del male, del dolore e della morte; e l'altra paranoicale, missionaria, aggressiva, che proietta il male e la morte fuori di sé e sviluppa il sogno millenaristico di stampo religioso e politico. (…)

Nonostante le sue manifestazioni spesso solo eccentriche e provocatorie, anche il dadaismo nasce da una spinta iconoclasta e millenarista. (…) Si tratta di una vera e propria apocalisse dei valori destinata a dischiudere un Millennio di nuovi valori: per altro indefiniti e fumosi, come accadrà sempre più spesso nei programmi dei movimenti rivoluzionari, sia in arte sia in politica.

Col surrealismo, apparentemente così lontano dall'impegno e così “capriccioso”, il millenarismo si precisa fin dagli inizi in forme politiche e ideologiche addirittura acritiche. Già nel 1925, un anno dopo la pubblicazione del primo Manifesto del surrealismo scritto da Breton, l'allineamento al comunismo sovietico è totale. (…)

Lo sviluppo cubista dell'impressionismo sembra contenere sia la distruttività emotiva di un certo espressionismo “sociale” e del dadaismo, sia lo sforzo ricostruttivo intellettuale dell'astrattismo. Ma la matrice psicologica dell'operazione è forse da cercare ancora una volta in una esigenza di purezza, nitidezza, chiarezza formale, nell'aspirazione cioè a un mondo ben strutturato e incontaminato da contrapporre a quello caotico e conflittuale della realtà e della natura.

Del resto, sia che fosse dominante, dinnanzi alla realtà, l'impulso di distruzione e demolizione, sia che prevalesse invece il bisogno di un nuovo ordine formale, si è sempre in presenza di un problema esistenziale e di una aspirazione millenaristica. Beninteso né autori né critici ne furono di solito consapevoli, anche perché quell'aspirazione si tradusse spesso in un impegno politico da loro stessi presentato e percepito come laico o addirittura antireligioso.

Nel futurismo è fin troppo facile cogliere la nota millenarista, dato che essa pervade con la sua enfasi retorica e iconoclastica ogni pagina e ogni manifestazione futurista. L'interesse psicologico del movimento, al di là di certe sue chiassate balorde, sta comunque nella declinazione a volta a volta social-massimalista e individual-fascista che esso diede a questa sua spinta millenaristica, rimasta sempre sostanzialmente invariata. (…)

All'estremismo di derivazione marxista si associava significativamente il fanatismo nazionalista e l'attesa di un'apocalisse bellica (“Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo”). Tutto ciò è stato denunciato con indignazione come bieco opportunismo: e forse in un certo senso lo fu. Ma in un altro è più profondo senso fu espressione di una stessa esigenza apocalittica e millenaristica che assunse a volta a volta caratteri comunisti e fascisti.

In nessun movimento culturale quanto nel futurismo, forse, emerge trasparente il denominatore comune psicologico del fanatismo di destra e di sinistra.

E la radice esistenziale di questo denominatore comune trova espressione emblematica in un grande artista italiano che del futurismo e di altre avanguardie fu esponente geniale: Umberto Boccioni. Quando, alla vigilia della prima guerra mondiale, le sue speranze e idealità socialiste entrarono in crisi, proruppe in lui l'angoscia esistenziale, elaborata tuttavia in una forma di volontarismo stoico: “Nascere, crescere e morire: ecco la fatalità che ci guida. Non marciare verso il definitivo è un rifiutarsi all'evoluzione, alla morte. Tutto si incammina verso la catastrofe”.

E chi guarda le splendide tele di Boccioni, ove tutta la realtà si avvita in un gorgo minaccioso, potrà meglio capirne il senso profondo: (…) un'attesa angosciosa d'apocalisse che l'artista può e deve sfidare con un atto di volontà, una fede ottimistica ribadita contro ogni logica, un “credo quia absurdum” cui è venuto a mancare persino Dio. > >

LUIGI DE MARCHI

mercoledì 8 giugno 2016

Il dilemma del mentitore

La nostra vita sociale, sempre più complessa e, diremmo oggi, interconnessa, si muove continuamente in bilico tra fiducia e menzogna. Come difendersi ?
All’argomento è dedicato questo breve post di Massimiliano Rupalti, in cui si parla, tra le altre cose, del numero di Dumbar e della sua fondamentale utilità nel riconoscere i mentitori. (da Effetto Risorse). Lumen


<< Il linguaggio è il vero e proprio punto di rottura fra gli esseri umani e qualsiasi altra cosa che cammina, striscia o vola sulla faccia della terra. Nessun'altra specie (eccetto le api) ha strumenti che possano essere usati per scambiarsi informazioni complesse fra gli individui in termini, ad esempio, di dove si può trovare il cibo e in quali quantità.

E' il linguaggio che crea la “ultra-socialità” umana, è il linguaggio che ci permette di metterci insieme, pianificare per il futuro, fare le cose. Il linguaggio può essere visto come una tecnologia di comunicazione di incredibile potere. Ma, come per tutte le tecnologie, ha conseguenze inattese.

Tutti sappiamo che il suono che scriviamo come “cervo” è associato ad un tipo di animale specifico. Con questo simbolo si possono creare frasi come “Ho visto un cervo vicino al fiume, andiamo a cacciarlo!” Ma, se si crea un simbolo, in qualche modo si “crea” un cervo – una creatura virtuale che ha alcune delle caratteristiche del cervo vero.

Si può immaginare un cervo, anche se non c'è alcun cervo in giro. E questo simbolo ha un certo potere, forse si può far apparire un cervo pronunciando il suo nome o disegnando il suo simbolo sulla parete di una caverna. E' il principio che chiamiamo “magia simpatica”, forse la forma di magia più antica e fondamentale.

Creare un cervo virtuale è una cosa utile se la corrispondenza col cervo reale non viene persa. Il problema col linguaggio è che non è sempre così. Il cervo di cui si parla potrebbe non esistere, potrebbe essere un'illusione, un errore o, peggio ancora, uno stratagemma per intrappolare ed uccidere un nostro nemico. E' questa l'origine del concetto che chiamiamo “bugia”.

Si può usare il linguaggio non solo per collaborare coi propri vicini, ma anche per ingannarli. Abbiamo prove che i nostri antenati hanno affrontato il problema sin dalle prime registrazioni scritte che abbiamo. In alcune tavole sumere che risalgono al terzo millennio A.C., troviamo che fra i poteri che la dea Inanna ha rubato al dio Enki, uno è “quello di pronunciare parole di inganno”.

La questione della bugia è cruciale per la sopravvivenza umana. Mentire rende inutile la comunicazione visto che non ci si può fidare della persona con la quale si comunica. Il cervo che il tuo amico ti aveva detto essere in riva al fiume scompare nello spazio virtuale: non si può dire se fosse reale o meno. La stupenda tecnologia del linguaggio, sviluppata in centinaia di migliaia di anni, distrugge se stessa con la conseguenza involontaria della bugia.

Tutte le tecnologie hanno conseguenze involontarie, tutte sono riconducibili a qualche tipo di soluzione tecnologica. Combattere le bugie richiede la valutazione delle affermazioni e di chi le pronuncia. Il modo più semplice per farlo è basare la valutazione sulla fiducia.

Tutti conosciamo la storia del “ragazzo che gridava al lupo”, probabilmente vecchia quanto l'homo sapiens. Nelle sue diverse versioni, essa dice “se menti una volta, non verrai creduto mai più”. E funziona, ha funzionato per centinaia di migliaia di anni e funziona ancora.

Pensate alla vostra cerchia di conoscenze attuali. Quelle persone che conoscete personalmente e che conoscete da un po' di tempo. Vi fidate di loro, sapete che non vi mentirebbero. E' per questa ragione che li chiamate “amici”, “compagni”, “compari” e cose del genere.

Ma questo funziona finché si mantiene la propria relazione all'interno di un gruppo piccolo e sappiamo che la dimensione di una cerchia di rapporti stretti di solito non va oltre le 150 persone (si chiama “Numero di Dumbar”). Entro questa dimensione, la reputazione di ogni membro è conosciuta da tutti gli altri e i bugiardi vengono facilmente identificati e contrastati e persino espulsi).

Il problema si è manifestato quando le persone hanno cominciato a vivere in grandi città. Poi, la maggior parte delle persone interagiva con un numero molto maggiore di persone del numero di Dumbar. Come possiamo sapere se qualcuno che non avete mai incontrato prima dev'essere creduto o no ? In questa situazione, la sola difesa contro i truffatori sono gli indizi indiretti: il modo di vestire, il modo di parlare, l'aspetto fisico, ma nessuno è efficace quanto la fiducia in qualcuno che si conosce bene.

Ma questo era niente in confronto a quello che è arrivato con l'era dei mass media. A quel punto si leggevano cose, sentivano cose, vedevano cose, ma in realtà non si avevano indizi sulla provenienza di queste comunicazioni, né si poteva verificare se la realtà virtuale che si aveva di fronte corrispondeva al mondo reale.

Man mano che i mass media hanno allargato la loro portata, le persone che li controllavano hanno scoperto che mentire era facile e che avevano molto poco da perdere mentendo. Dalla parte di chi riceveva, c'erano persone confuse ed incapaci di verificare l'informazione ricevuta. I media potevano facilmente raccontar loro bugie che non sarebbero state scoperte, perlomeno per un po'. (…)

Poi sono arrivati internet e i social media che hanno reso la bugia democratica. Ora tutti potevano mentire a chiunque altro semplicemente condividendo un messaggio. La verità non veniva più dalla fiducia nelle persone che la trasmettevano, ma dal numero di “mi piace” e dalle condivisioni che il messaggio aveva ricevuto. La verità non è la stessa cosa che la viralità, ma sembra essere diventata esattamente questo nella percezione generale: se qualcosa viene condivisa da molte persone, allora deve essere vera.

Così oggi ci dicono bugie continuamente, costantemente e allegramente quasi tutti e su quasi tutto. Mezze verità, pure invenzioni, distorsioni della realtà, giochi di parole, false flags, statistiche distorte e altro sono le comunicazioni che affrontiamo quotidianamente. Lo tsunami di bugie che ci si sta abbattendo addosso è quasi inimmaginabile ed ha conseguenze spaventose. Ci sta rendendo incapaci di fidarci di qualsiasi persona e cosa.

Stiamo perdendo il contatto con la realtà, non sappiamo più come filtrare gli innumerevoli messaggi che riceviamo. La fiducia è un grande problema nella vita umana, non per niente, si dice che il diavolo è “il padre delle bugie” (Giovanni 8:44). E infatti, ciò che l'antropologo Roy Rappaport chiamava le “bugie diaboliche” sono quelle bugie che manipolano il tessuto stesso della realtà. E se si perde il contatto con la realtà, ci si perde. Potrebbe essere questo che sta succedendo a tutti noi.

Alcuni di noi trovano più facile credere semplicemente a quello che ci viene raccontato dai governi e dalle lobby, altri passano ad una sfiducia generalizzata su tutto, cadendo facilmente vittime di altre bugie. Le bugie diaboliche sono frattali, nascondo altre bugie dentro di sé, fanno parte di bugie più grandi. (…)

Così, eccoci tornati al problema del “ragazzo che gridava al lupo”. Noi siamo il ragazzo, non ci fidiamo di nessuno, nessuno ci crede e il lupo è qui davvero. Il lupo prende la forma del riscaldamento globale, dell'esaurimento delle risorse, del collasso dell'ecosistema e di altro, ma gran parte di noi sono incapaci di riconoscerlo, anche di immaginare che possa esistere.

Ma come biasimare quelle persone che sono state tradite così tante volte che hanno deciso che non avrebbero più creduto a niente che provenisse da un canale anche marginalmente “ufficiale”? Questo è un grande disastro è sta avvenendo proprio adesso, di fronte ai nostri occhi. Siamo diventati uno di quegli antichi cervi distrutti dal peso delle proprie stupende corna. Il linguaggio ci sta giocando un brutto scherzo, ci si sta ritorcendo contro dopo esserci stato così utile.

Spesso crediamo che la tecnologia sia sempre utile e che le nuove tecnologie ci salveranno dai disastri che incombono su di noi, io sto cominciando a pensare che ciò di cui abbiamo bisogno non sia più tecnologia, ma meno. E se il linguaggio è una tecnologia, mi sembra che ne abbiamo troppa, davvero. Sentiamo troppi discorsi, troppe parole, troppo rumore. Forse abbiamo tutti bisogno di un momento di silenzio. >>

MASSIMILIANO RUPALTI

mercoledì 1 giugno 2016

Dura Lex, sed Lex

LUMEN – Abbiamo oggi con noi Bruno Leoni, uno dei più importanti politologi italiani del ‘900, che ringraziamo vivamente per la cortesia.
LEONI – Grazie a voi per avermi invitato.

LUMEN - Professor Leoni, una delle tutele più importanti dei cittadini contro l’arbitrio del potere è indubbiamente la certezza della norma scritta.
LEONI – In effetti, la concezione greca della certezza del diritto era quella di un diritto scritto. Essa si fondava sulla necessità principale di evitare prepotenze e tirannidi. Ma il ‘diritto scritto decretato’ non assicura certezza, perché può essere legalmente cambiato in ogni momento, il che impedisce di fare previsioni sulle proprie azioni future, non conoscendo in principio quale normativa allora sarà in vigore.

LUMEN – Questo è vero.
LEONI - Proprio per questo i greci avevano sviluppato complessi sistemi per evitare modificazioni precipitose delle norme. In questa prospettiva, tutti gli ordinamenti fondati sulla legislazione ‘decretata’ dovrebbero essere considerati ordinamenti a breve termine, perché nulla esclude che domani la legge venga cambiata.

LUMEN – Quindi il problema è più complesso di quello che sembra.
LEONI – E non da oggi. In altre epoche storiche, la sensibilità per la certezza del diritto sul lungo periodo era ben maggiore. I Romani accettavano e applicavano un concetto di certezza del diritto molto stretto, nel senso che il diritto non doveva mai essere soggetto a cambiamenti improvvisi e imprevedibili. In più, il diritto non doveva mai essere subordinato alla volontà o al potere arbitrario di qualsiasi assemblea legislativa e di qualsiasi persona, compresi i senatori e gli altri magistrati importanti dello stato.

LUMEN – Qualcosa di simile, se non sbaglio, valeva anche in Inghilterra.
LEONI - Secondo il principio inglese della ‘rule of law’, che è strettamente intrecciato con tutta la storia della ‘common law’, le norme non erano propriamente il risultato dell’esercizio della volontà arbitraria di uomini particolari. Esse sono oggetto di una indagine spassionata da parte delle corti di giustizia, proprio come le norme romane erano oggetto di una ricerca spassionata da parte dei giuristi romani cui le parti sottomettevano le loro cause.

LUMEN – Alla libertà giuridica finisce poi per associarsi, inevitabilmente, anche la libertà economica.
LEONI – Se ammettiamo che la libertà individuale negli affari, cioè il libero mercato, è uno dei caratteri essenziali della libertà politica concepita come assenza di costrizione esercitata da altri, autorità comprese, dobbiamo anche concludere che la legislazione in questioni di vita privata è fondamentalmente incompatibile con la libertà individuale. E la certezza del diritto consiste sempre nel continuo fluire della produzione giurisprudenziale e non nella decretazione di un legislatore, per quanto ottimamente motivato.

LUMEN – Quindi un flusso dal basso e non dall’alto.
LEONI – Esattamente. Purtroppo la libertà individuale in tutti i paesi occidentali è stata gradualmente ridotta negli ultimi cent’anni, e questo non soltanto - o non principalmente - a causa di abusi e usurpazioni da parte di funzionari che agiscono contro la legge, ma anche perché la legge - cioè la legge scritta - autorizza i funzionari a comportarsi in modi tali, che la legge precedente avrebbe giudicato come una usurpazione di potere e un abuso nei confronti della libertà dei cittadini.

LUMEN – Quindi, anche il principio della legge scritta non è sufficiente a garantire la libertà.
LEONI – In effetti il vero attentato alla libertà risiede nel processo di legislazione, fondato sul mito della rappresentanza e della maggioranza. Se si considera che in una società democratica nessun processo legislativo ha luogo senza dipendere dal potere del numero, si deve concludere che probabilmente questo processo è in molti casi incompatibile con la libertà individuale. Il voto implica una forma di coercizione, e la decisione politica si raggiunge con una procedura che implica coercizione. Il votante che perde, fa inizialmente una scelta, ma alla fine deve accettarne una da lui precedentemente rifiutata: il suo processo decisionale è stato rovesciato.

LUMEN – Ma come si può fare a meno del principio di maggioranza ?
LEONI - All’inizio, il principio di rappresentanza non implicava necessariamente che la decisione del gruppo dei rappresentanti potesse essere adottata a maggioranza: una cosa è la rappresentanza, una cosa è la decisione a maggioranza. L’idea di un nesso fra rappresentanza e regola di maggioranza si fece strada nella sfera politica tramite i concili ecclesiastici che la trassero dal diritto delle persone giuridiche; ma anche nella Chiesa i canonisti ritenevano che le minoranze avevano certi diritti innegabili e che le questioni di fede non potessero essere decise con semplici maggioranze.

LUMEN – Certo, pensare che i dogmi di fede possano essere decisi a maggioranza fa veramente sorridere. Ma proseguite, vi prego.
LEONI – In effetti, molti autori hanno messo in luce la forzatura insita nel consentire la decisione a maggioranza nelle assemblee di rappresentanti. John Stuart Mill, per esempio, affermava che «L’elezione popolare, così praticata, invece di essere una garanzia contro il malgoverno, è solo una ruota addizionale del suo ingranaggio».

LUMEN – Addirittura. E dunque ?
LEONI - Dunque, nessun sistema rappresentativo basato su elezioni può funzionare bene, ove le elezioni siano tenute allo scopo di raggiungere decisioni collettive tramite la regola di maggioranza o qualunque altra regola il cui effetto è di coercire la parte perdente dell’elettorato. Perciò i sistemi ‘rappresentativi’ come di solito concepiti, in cui elezione e rappresentanza sono connesse, risultano incompatibili con la libertà individuale, nel senso di libertà di scegliere, autorizzare e istruire un rappresentante.

LUMEN – Sembra un paradosso.
LEONI - In buona sostanza, il sistema della rappresentanza e della decisione a maggioranza dissimula un sistema di selezione delle elites, in competizione per la leadership in un dato momento storico. Ovviamente, poi, la legislazione dettata dalla elite al governo costituisce il diritto di tutti (per il tempo che dura). Ma se non si evidenzia tale passaggio, si corre il rischio di considerare corretta ogni normativa, purché adottata in ossequio alla procedura di formazione della legge.

LUMEN – E questo dove potrebbe portare ?
LEONI – Potrebbe condurre alla distruzione globale della libertà individuale di scelta, nella politica, come nel mercato e nella vita privata, perché il punto di vista giuridico contemporaneo comporta una sempre maggiore sostituzione delle decisioni collettive alle scelte individuali, e l’eliminazione progressiva degli aggiustamenti spontanei, non solo fra domanda e offerta, ma anche fra ogni tipo di comportamento, attraverso procedure rigide e coercitive come quella della regola di maggioranza.

LUMEN – Una prospettiva a cui non viene facile pensare.
LEONI – Intendiamoci. Non è che dovrebbe essere abolita tout court la democrazia rappresentativa; ma, una volta preso atto che nel nostro tempo l’estensione dell’area in cui sono ritenute necessarie decisioni collettive è stata fortemente sovradimensionata, si dovrebbe ridurre il più possibile le decisioni collettive all’alveo strettamente essenziale.

LUMEN – Ma, in concreto, cosa si dovrebbe fare ?
LEONI - Questa grande rivoluzione passerebbe necessariamente per una costituzione che privilegi l’area della legge non scritta rispetto a quella della legge scritta; che concepisca la certezza del diritto come certezza a lungo termine; che cauteli il potere giudiziario separandolo il più possibile dal potere esecutivo. e che quindi riconosca la giurisprudenza come fonte principale di diritto.

LUMEN – Quindi una volontà comune da intendersi in senso lato.
LEONI – In effetti, il termine ‘volontà comune’ ha un significato molto più ampio e convincente di quello adottato dai sostenitori delle decisioni collettive. E’ la volontà che emerge dalla collaborazione di tutte le persone interessate senza ricorso alle decisioni di gruppo e ai gruppi di decisione. Le decisioni collettive possono corrispondere ad una volontà comune - e quindi possono essere legittimamente adottate – solo quando possiamo presumere che l’oggetto di quelle decisioni sarebbe approvato, in circostanze simili, da tutti i membri del gruppo, compresi i membri di minoranza che al momento ne sono vittime.

LUMEN – E se questo non è possibile ?
LEONI - In tutti gli altri casi, la volontà comune deve emergere, come abbiamo detto, dalla formazione del diritto in sede giudiziaria, secondo i canoni per secoli adottati nel diritto romano classico e nella ‘common law’ inglese.

LUMEN – Sembra più facile a dirsi che a farsi.
LEONI – Non è detto. Storicamente, i periodi più fecondi della civiltà occidentale sono stati quelli in cui il diritto è sorto “dal basso”, attraverso l’anonima e secolare stratificazione di decisioni giurisprudenziali e che le opere di codificazione (Giustiniano, Napoleone) si sono limitate a cristallizzare quello che era il diritto pretorio al momento della codificazione.

LUMEN – Questo è vero.
LEONI - Il problema nacque nel XIX secolo, quando il fatto che nei codici e nelle costituzioni originari il potere legislativo si limitasse a compendiare un diritto che non aveva decretato, fu gradualmente dimenticato o considerato di poco conto a paragone del fatto che sia i codici sia le costituzioni erano state emanate da corpi legislativi, i cui membri erano i ‘rappresentanti’ del popolo.

LUMEN - E si trattò, in effetti, di un cambiamento epocale.
LEONI - Ci si deve dunque liberare dall’idea platonica per cui la libertà coincide con l’ambito di operatività della legge scritta: tale conclusione è valida solo se l’unica alternativa alla legge scritta è l’arbitrio di un tiranno. Ma questa alternativa non è l’unica né, forse, la più importante.

LUMEN – Una conclusione ineccepibile. Grazie professore, siete stato davvero illuminante.
LEONI – Illuminante per chi vuol vedere. Purtroppo le cose sembrano andare per una strada diversa. E la libertà dei cittadini appare sempre più limitata.

LUMEN - Come avete ragione !